lunedì 22 giugno 2020

L'erranza di san Francesco secondo Massimo Cacciari

Il 10 aprile 2019, nell'Aula Magna dell'Università Politecnica delle Marche in Ancona, Massimo Cacciari ha inaugurato con un'intervento su “L’erranza di san Francesco” l'anno francescano voluto dall'Arcidiocesi di Ancona-Osimo per ricordare gli 800 anni dalla partenza di san Francesco dal porto di Ancona alla volta della Terra Santa. 




sabato 12 ottobre 2019

Francesco d'Assisi: dalla schiavitù alla libertà - Epilogo: nella Chiesa dietro a Cristo


Abbiamo sottolineato come la scena della rinuncia dei beni segni la svolta della storia di san Francesco. È il punto di non ritorno, l’inizio di una storia nuova, o della storia di un uomo nuovo, un uomo libero.

E in questa prospettiva ci piace guardare all'affresco che segue, quello del sogno di Innocenzo III che fissa un particolare dell’incontro che Francesco ebbe con il pontefice e che nel Testamento egli stesso ricorda così: «E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. E io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor papa me la confermò» (2Test 14-15: FF 116). Era, con ogni probabilità, la primavera del 1209.

Come riferiscono alcune delle antiche biografie, il Pontefice si sentì rassicurato nell'approvare il propositum vitae presentatogli da Francesco, da «una visione, che egli aveva ricevuto dal cielo in quella circostanza. Infatti, come egli raccontò, in sogno vedeva che la basilica del Laterano ormai stava per rovinare e che un uomo poverello, piccolo e di aspetto spregevole, la sosteneva, mettendovi sotto le spalle perché non cadesse. “Veramente – concluse il pontefice – questi è colui che con la sua opera e dottrina sosterrà la Chiesa di Cristo”» (LegM III,10: FF 1064).[27]

Non dunque una tra le tante chiese, anche se particolarmente importante come appunto la basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, sede del romano pontefice, insignita del titolo di Omnium Urbis et Orbis Ecclesiarum Mater et Caput, ma la stessa chiesa di Cristo. Una chiesa santa nel suo Capo, e su di lui stabile come casa fondata sulla roccia, ma peccatrice nelle sue membra che siamo noi, sempre a rischio di rovinare quando poniamo un altro fondamento. E questo sempre, da che mondo è mondo o, meglio, da che chiesa è chiesa. I tempi di Francesco e di Innocenzo III non facevano eccezione.

«Siamo in un momento di fermenti religiosi, civili e politici e soprattutto la chiesa si vede attraversata da molti movimenti spirituali che chiedono un rinnovamento della vita cristiana. Molti giovani si confrontano con le origini evangeliche riscoprendo la parola di Dio, la preghiera, la fraternità, perfino la predicazione. I Valdesi in Francia e in Italia settentrionale, come pure gli Umiliati che creano comunità di lavoro e di preghiera, i Catari nell'Europa e i numerosi movimenti religiosi, con la loro tensione caritativa verso i poveri, sono sulla scena quando Francesco si converte. La sua esperienza non è nuovissima e Francesco resta un uomo del suo tempo e profondamente radicato in esso. Tuttavia Francesco fin dall'inizio percepisce che la sua forma vitae dev'essere in ecclesia, in comunione con la chiesa. Quando agli inizi della sua conversione, vaga nelle campagne, entrando nella chiesa rovinata di San Damiano per pregare, trova un vecchio prete, un povero prete simbolo di una chiesa in decadenza e gli dà il denaro che aveva per ricostruire quella casa di Dio. Ma qui mentre è in preghiera davanti al Crocifisso sente una voce: “Francesco, va’, ripara la mia casa che come vedi è tutta in rovina!”. Francesco obbedirà alla lettera e come primo lavoro nella sua nuova vita riparerà chiese abbandonate, ma questo sarà come una profezia, un sigillo di tutta la sua vocazione: riparare non soltanto la chiesa di pietre, ma riparare la chiesa di Dio, quel corpo reale di Cristo che sta per volontà di Dio in mezzo  agli  uomini. Anche questo fatto mostra l'ecclesialità di Francesco di fronte a una chiesa storicamente, allora come adesso, ricca e potente, in preda al carrierismo ecclesiale, e in parte lontana dalla radicale purezza evangelica. Non era quella una chiesa di cui essere fieri perché segnata dalla presenza del denaro, del trionfalismo marcato, da una vita che si esauriva più nel sacramentalismo che in un’obbedienza al discorso della montagna di Gesù Signore. I vari movimenti erano insorti   con   veemenza   contro   questa   situazione   e Francesco avrebbe potuto essere fagocitato dalla loro crescita e dalla loro forte presenza. Ma di fronte a una chiesa criticata e contestata, che ormai doveva misurarsi con chiese parallele, anche se non in rottura consumata, Francesco con la sapienza di un illetterato docile allo Spirito santo intravede che c’è un legame indistruttibile tra  Parola  di  Dio,  sacramenti  e  ministero  e  vede  con intelligenza che questo legame non può essere autenticamente vissuto fuori, accanto alla chiesa reale. È questo che gli impone un amore di comunione, un rispetto delle strutture essenziali e gli vieta di esprimere giudizi duri, senza appello sulla chiesa nonostante non fosse cieco di fronte alle deformazioni dell'evangelo. Egli non sceglie né la protesta né la formazione di un gruppo, di un movimento  autosufficiente  rispetto  alla chiesa  del suo tempo».[28]

Francesco fa la scelta di stare nella chiesa, in quella chiesa, e nel Testamento di Siena, insieme all'amore vicendevole e all'osservanza della santa povertà, chiederà ai suoi frati «in segno e memoria della mia benedizione e del mio testamento» (Test 3: FF 133) che «sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa» (5: FF 135). E nel Testamento del 1226 scriverà così: «Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa romana, a motivo del loro ordine, che se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e trovassi dei sacerdoti poverelli in questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori. E non voglio considerare il loro peccato, perché in essi io discerno il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri» (2Test 6-10: FF 112-113).

È quello che si può vedere nell'affresco della chiesa superiore dove a uno sguardo attendo non sfugge il fatto che Francesco stia sostenendo il Laterano standoci dentro: i piedi piantati non – come logica vorrebbe – su un solido appoggio esterno, ma sul pavimento del portico, inclinato come il resto dell’edificio cadente. Così è l’uomo libero: colui che di fronte alle difficoltà e alla fatiche, di fronte ai rischi che la vita comporta, di fronte agli inevitabili fallimenti e alle umiliazioni che questi comportano, smette di fuggire, di rifugiarsi nei suoi sogni, nelle idealizzazioni, alla ricerca di qualcos'altro, di qualcosa magari di perfetto, di qualcosa che lo rassicuri, che gli dia sicurezza. Smette di scappare e accetta di guardare in faccia la realtà riconoscendola, pur in tutta la sua drammaticità, come un’occasione, un’opportunità. Così è Francesco che nell'esperienza di sentirsi guardato e amato da Dio per quello che è impara a guardare gli altri e tutte le creature allo stesso modo.

E quale sia lo stile con cui Francesco vuole rimanere in ecclesia viene immediatamente chiarito nell'affresco che segue, dove, l’approvazione orale del propositum vitae da parte di papa Innocenzo III, lascia il posto alla consegna della Regola confermata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III.


Un testo giuridico, ma che lo stesso Francesco amava definire «libro della vita, speranza di salvezza, midollo del Vangelo, via della perfezione, chiave del paradiso, patto di eterna alleanza» (2Cel 208: FF 797). E dopo il riferimento al Vangelo, Regola e vita dei Frati Minori, il testo continua così: «Frate Francesco promette obbedienza e riverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana» (Rb I,2: FF 76; cf. Rnb Prologo,3: FF 3), e così si conclude: «Inoltre ingiungo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabiliti nella fede cattolica, osservino la povertà e l’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso» (XII,3-4: FF 108-109).

E l’affresco sempre sembra dire proprio così.

Rimane una domanda a cui rispondere: come è avvenuta in Francesco questa trasformazione? come è potuto passare dalla schiavitù alla libertà, dalla disobbedienza all'obbedienza? Ancora una volta sono gli affreschi a suggerirci una risposta.

Già notavamo come, nel raccontare l’omaggio dell’uomo semplice, san Bonaventura sembra far riferimento all'ingresso di Gesù a Gerusalemme, quando «la folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami degli alberi e li stendevano sulla strada» (Mt 21,8). Si tratta di un episodio spesso rappresentato nei cicli cristologici della cosiddetta biblia pauperum, e che troviamo anche nel transetto della chiesa inferiore, affrescato da Pietro Lorenzetti, all'inizio della sequenza degli episodi della passione, morte e risurrezione del Signore.


Verrebbe da dire – come del resto è “teologico” che sia – che Francesco raggiunge la libertà, o, meglio, diventa partecipe dalla libertà acquistataci da Cristo, andando dietro a lui, salendo con lui a Gerusalemme per celebrare con lui la Pasqua. La stessa cosa sembra valere per Chiara, la sua pianticella (cf. RsC I,3: FF 2751).


Nell'unico affresco del ciclo in cui compare santa Chiara – quello del compianto di lei e delle sue sorelle sul corpo di Francesco mentre, dopo la morte, viene portato dalla Porziuncola alla chiesa di San Giorgio –, è dipinto un bambino che sale su un ulivo. Tommaso da Celano, nella Vita prima, scrive a proposito che, in quell'occasione, «tutti, munitisi di rami di ulivo e di altri alberi, seguendo insieme in solenne corteo le sacre reliquie, procedevano cantando a piena voce inni di lode al Signore, nello splendore di innumerevoli fiaccole» (116: FF 523).[29] Ma la figura di quel bambino sembra anch'essa presa dall'iconografia dell’ingresso a Gerusalemme,[30] quasi a voler sottolineare come anche il cammino di Chiara avvenne andando dietro a Cristo, che entra nella città santa per dare compimento alla sua missione redentrice. Del resto fu proprio la notte successiva alla domenica delle Palme dell’anno 1211 che ella lasciò furtivamente la casa paterna per raggiungere Francesco, dopo che il giorno precedente «accadde qualcosa che seppe di presagio: mentre tutte le altre [donne] si affrettavano a prendere la palma, Chiara, per modestia, rimane al suo posto, cosicché il vescovo, scendendo i gradini, si porta da lei e le mette in mano la palma» (LegsC 4: FF 3168).

Così scrive san Bonaventura al termine della Leggenda maggiore: «Glòriati dunque, ormai sicuro, nella gloria della croce, o glorioso alfiere di Cristo; tu che, cominciando dalla croce, sei progredito seguendo la regola della croce, e nella croce hai portato a compimento la tua opera. Glòriati ora che, prendendo a testimone la croce, manifesti a tutti i fedeli quanto sei glorioso nel cielo. Ormai ti seguano sicuri coloro che escono dall'Egitto: il legno della croce di Cristo farà dividere davanti a loro il mare ed essi passeranno il deserto, attraverseranno il Giordano della vita mortale e, sorretti dalla mirabile potenza della croce, entreranno nella terra promessa dei viventi. Là ci introduca il vero condottiero e salvatore del popolo, Gesù Cristo crocifisso, per i meriti del suo servo Francesco, a lode del Dio uno e trino, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen» (X,9: FF 1329).

Fine

A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.



Indice

- parte prima: un cavallo da cui scendere
- parte seconda: un cavallo da dirottare
- parte terza: un cavallo di cui liberarsi
Epilogo: nella chiesa dietro a Cristo


Note

[27] Cf. 3Camp 51: FF 1460. Questo sogno di papa Innocenzo III ricorre anche nelle prime biografie di san Domenico Guzman (cf. RAIMONDO SPIAZZI, San Domenico di Guzman. Biografia documentata di un uomo riconosciuto dai suoi contemporanei come "tutto evangelico", Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1999, pp. 169-170), riferito allo stesso fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori.

[28] ENZO BIANCHI, Francesco uomo di Dio, trascrizione a cura della Comunità di Bose non rivista dall'autore di un intervento del 2 ottobre 1982 nella Chiesa Cattedrale di Torino, pp. 7-8.

[29] San Bonaventura nella Leggenda maggiore parla più genericamente di «rami d’albero» (XV,5: FF 1250).

[30] Si veda ad esempio Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova o, nella chiesa inferiore della stessa basilica assisana, Pietro Lorenzetti nel lato meridionale del transetto.

mercoledì 9 ottobre 2019

Francesco d'Assisi: dalla schiavitù alla libertà - Atto terzo: cavallo e cavaliere

Non sappiamo quale sia lo spazio temporale che intercorse tra L'omaggio dell’uomo semplice e La rinuncia dei beni che le cronologie collocano tra il 1206 e il 1208: nelle antiche biografie si tratta di pochi paragrafi; nel ciclo pittorico della chiesa superiore della basilica assisana di tre riquadri: Il dono del mantello ad un cavaliere povero, Il sogno del palazzo con armature e stendardi, Il crocifisso di San Damiano che parla a Francesco.

«Sono tre scene comiche e crudeli nello stesso tempo, perché alla chiamata di Dio mediante il povero, mediante l’urgenza del mondo e dentro la Chiesa stessa, Francesco dà una risposta che è buona, ma che è fuori dalla sua vocazione: risponde mediante il denaro, ed è una risposta erronea. Grazie al denaro, la nobiltà non vale più. La ricchezza non riveste il cavaliere povero di nobiltà, ma lo inserisce nella nuova gerarchia dettata dal denaro! L’elemosina di Francesco è ambigua: non è forse una rivincita dopo aver perso la guerra contro la nobiltà di Perugia? All'appello di Dio: “Sii il mio soldato”, egli risponde comperando delle armi. Per fortuna di ammala! “Ripara la mia Chiesa!”: fa tutto a rovescio, ruba i tessuti del padre, vende il cavallo e offre i soldi che ha in borsa. Usa sempre il potere del denaro. Si è reso conto che il denaro può spezzare le grandi gerarchie tradizionali, che il denaro può diventare il mezzo di una generosa carità. Ma queste risposte non sono nella linea della radicalità evangelica della sua vocazione».[16]

Proprio in questi tre episodi – almeno nella loro rappresentazione  nel ciclo  pittorico assisano – ci sembra tracciata la dinamica della sua conversione che leggeremo attraverso una figura che in qualche modo li attraversa: il cavallo. 


Parte prima
Un cavallo da cui scendere


Come è già stato notato non c’è in questo, come anche in altri cicli pittorici della storia di san Francesco, l’incontro con il lebbroso di cui egli stesso parla nel Testamento e poi ripreso dagli antichi biografi.[17] Qui la sequenza segue la fonte di riferimento, la Leggenda maggiore, che dopo l’omaggio dell’uomo semplice scrive: «Ma Francesco non conosceva ancora i piani di Dio sopra di lui: impegnato, per volontà del padre, nelle attività esteriori e trascinato verso il basso dalla nostra natura corrotta fin dall'origine, non aveva ancora imparato a contemplare le realtà celesti, né aveva fatto l’abitudine a gustare le realtà divine. E siccome lo spavento fa comprendere la lezione, venne sopra di lui la mano del Signore e l’intervento della destra dell’Eccelso colpì il suo corpo con lunghe infermità, per rendere la sua anima disposta all'unzione dello Spirito Santo. Quand'ebbe riacquistato le forze fisiche, essendosi procurato, com'era sua abitudine, vestiti decorosi, incontrò una volta un cavaliere, nobile ma povero e mal vestito, e, commiserando con affettuosa pietà la sua miseria, subito si spogliò e gli fece indossare i suoi vestiti. Così, con un sol gesto, compì un duplice atto di pietà, poiché nascose la vergogna di un nobile cavaliere e alleviò la miseria di un uomo povero» (LegM I,2: FF 1030).

Forse per l’opportunità di presentare la vicenda di Francesco secondo il modello agiografico dell’epoca[18] – cosa che potrebbe aver influito anche nella scelta degli episodi da rappresentare negli affreschi[19] –, il Celano, nella Vita seconda, così commenta: «È stato, forse, da meno il suo gesto di quello del santissimo Martino? Eguali sono stati il fatto e la generosità, solo il modo è diverso: Francesco dona le vesti prima del resto, quello invece le dà alla fine, dopo aver rinunciato a tutto. Ambedue sono vissuti poveri ed umili in questo mondo e sono entrati ricchi in cielo. Quello, cavaliere ma povero, rivestì un povero con parte della sua veste, questi, non cavaliere ma ricco, rivestì un cavaliere povero con la sua veste intera. Ambedue, per aver adempiuto il comando di Cristo, hanno meritato di essere, in visione, visitati da Cristo, che lodò l’uno per la perfezione raggiunta e invitò l’altro, con grandissima bontà, a compiere in se stesso quanto ancora gli mancava» (5: FF 585).

Anche in questo affresco comunque – come già si notava in quello introduttivo – la scenografia si arricchisce di particolari che vanno oltre il testo di riferimento. Espliciti sono qui gli elementi presi dall'episodio taciuto, quello del lebbroso, così come narrato dalla Leggenda maggiore: «Un giorno, mentre andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell'incontro inaspettato lo riempì di orrore. Ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare soldato di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e questi, mentre stendeva a lui la mano come per ricevere l'elemosina, ne ebbe il denaro insieme con un bacio. Subito risalì a cavallo; ma, per quanto si volgesse a guardare da ogni parte e sebbene la campagna si stendesse libera tutt'intorno, non vide più in alcun modo quel lebbroso. Perciò, colmo di meraviglia e di gioia, incominciò a cantare devotamente le lodi del Signore, proponendosi, da allora in poi, di elevarsi a cose sempre maggiori» (I,5: FF 1034).

Da questo brano il nostro affresco trae evidentemente l’ispirazione per il paesaggio che fa da sfondo all'incontro: una città fortificata sul pendio di un monte e un monastero sul versante del monte opposto, così come si poteva immaginare di vedere dalla pianura che si stende ai piedi di Assisi la stessa città e l’abbazia benedettina del Subasio. Dalla stessa fonte viene presa anche la figura del cavallo: quel cavallo dal quale Francesco scese per correre ad abbracciare il lebbroso, quel cavallo su cui si affretterà subito dopo a risalire.

Una presenza, quella del cavallo, che comunque non è fuori luogo dove c’è un cavaliere, anzi, addirittura due: uno effettivo, nobile, ma che ormai, povero e malvestito, il cavallo non ce l’ha più; l’altro di desiderio, ricco, ma non nobile, che il cavallo ce l’ha, eccome!

Della vocazione cavalleresca di Francesco si fa cenno nelle fonti biografiche. Così la Leggenda dei tre Compagni, dopo aver detto del ritorno di Francesco dalla prigionia a Perugia, scrive: «Passati pochi anni, un nobile della città di Assisi, desideroso di acquistare soldi e gloria, fa i preparativi militari per andare in Puglia. Venuto a sapere la cosa, Francesco è preso dal desiderio di andare con lui. Così, per essere creato cavaliere da un certo conte Gentile, prepara delle vesti il più possibile preziose; poiché, se era meno ricco di quel concittadino, era però più largo di lui nello spendere» (5: FF 1399).

Non è scritto, ma è facile immaginare, che quello della cavalleria  fosse  un  sogno  accarezzato  fin da  bambino, magari nutrito dalle chanson de geste narrategli dalla madre, che una certa tradizione vuole di origine francese, o ascoltate da qualche cantastorie di passaggio in Assisi. Un sogno probabilmente assecondato dal padre, che avrebbe potuto beneficiare “economicamente” della fama del figlio, della possibilità concessa ai cavalieri di acquistare un titolo nobiliare e ascendere così nella scala sociale della città.

Ma, a differenza di san Martino – almeno da come è raffigurato nella cappella a lui dedicata della chiesa inferiore della stessa basilica – Francesco dal cavallo scende. Scende, o è tirato giù: scende perché in qualche modo “costretto”, ma non solo e non tanto dalla pietà verso un povero e malvestito, uno tra i tanti che popolavano la sua e le altre città, a cui il mantello avrebbe potuto anche “gettarlo” dall'alto del suo cavallo, senza entrare effettivamente e affettivamente in relazione con lui. A farlo scendere dalla sua condizione di presunta o pretesa superiorità, di distacco – o, più semplicemente, di paura –, non è semplicemente la vista di un povero, ma di un “cavaliere” povero, verosimilmente impoverito, fallito.

Non è difficile immaginare come si possa essere sentito Francesco in quel momento, quali emozioni lo abbiamo attraversato nel trovarsi di fronte a un modello sfigurato, quello del cavaliere, in cui si infrangeva quell'ideale tanto coltivato, drammaticamente risvegliato da una realtà che gli stava davanti e che non poteva più evitare: il fallimento appunto. Eppure qualcosa del genere doveva averlo già provato nella lunga malattia riferita sia dal Celano nella Vita prima (cf. 3: FF 323) che da san Bonaventura nella Leggenda maggiore (cf. I,2: FF 1030), come anche nella prigionia a Perugia di cui ci parla sia lo stesso Celano nella Vita seconda (cf. 4: FF 584) che la Leggenda dei tre Compagni (cf. 4: FF1398).

Francesco scende da cavallo come san Paolo cadde a terra sulla via di Damasco (cf. At 9,4; 22,7; 26,14), tirato giù dall'amor sui, come fu umiliata la fierezza di colui che prima era «un bestemmiatore, un persecutore, un violento» (1Tm 1,13).

Un cavallo dunque più simbolico che reale, “aggiunto” nell'iconografia di Francesco come in quella di Paolo[20] e – a leggere la sua Vita – pure in quella di Martino[21]. 


E un uomo fatto tutt'uno col proprio cavallo è il centauro raffigurato nella vela dell'obbedienza dipinta sul soffitto della crociera della chiesa inferiore, dove il testo che accompagna l’affresco  lo  indica come simbolo della presunzione. Creatura della mitologia greca, il centauro rimanda al cavallo e al mulo, privi d’intelligenza, la cui «foga si piega con morso e briglie se no, a te non si avvicinano» (Sal 31,9).[22]


Ma a differenza dell’Apostolo, dopo quell'incontro, dopo quella discesa, subito Francesco risalì sul cavallo. «Abbandonare le consuetudini – scrive il primo biografo – è infatti molto difficile: una volta impiantatesi nell'animo, non si lasciano sradicare facilmente; lo spirito, anche dopo lunga lontananza, ritorna ai primitivi atteggiamenti, e il vizio finisce per diventare una seconda natura. Pertanto Francesco cerca ancora di sottrarsi alla mano divina; quasi immemore della correzione paterna, arridendogli la fortuna, accarezza pensieri terreni: ignaro del volere di Dio, sogna ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo» (1Cel 4: FF 324). 


Parte seconda
Un cavallo da dirottare


E Francesco sogna. «La notte successiva, mentre dormiva, dalla clemenza di Dio gli fu mostrato un palazzo grande e bello, pieno di armi contrassegnate con la croce di Cristo, per anticipargli in forma visiva come la misericordia da lui usata verso il cavaliere povero, per amore del sommo Re, stava per essere ricambiata con una ricompensa impareggiabile. Infatti, siccome egli chiedeva a chi appartenessero quelle armi, gli fu risposto, con una dichiarazione dall'alto, che erano tutte sue e dei suoi cavalieri» (LegM I,3: FF 1031).

L’antichità e la scienza moderna attribuiscono grande importanza ai sogni: l’una e l’altra riconoscendovi uno spazio privilegiato di relazione e di comunicazione con sé e con l’altro. Ma, come sostiene qualcuno, nessun sognatore può interpretare i suoi sogni perché chi lo fa finisce per crearne uno nuovo.[23]

Ed è quello che accade a Francesco: «Quando al mattino si destò, credette di capire che quella insolita visione era per lui un presagio di gloria. Difatti egli non aveva ancora l’animo esercitato a scrutare i divini misteri e non sapeva ancora intuire la verità delle cose invisibili, attraverso le apparenze di quelle visibili. Perciò, ignorando ancora le disposizioni di Dio, decise di recarsi in Puglia al servizio di un nobile conte, con la speranza di acquistare in questo modo quel titolo di cavaliere che la visione gli aveva indicato. Di lì a poco si mise in viaggio; ma, appena giunto nella città più vicina, udì nella notte il Signore che in tono familiare gli diceva: “Francesco, chi ti può giovare di più: il signore o il servo, il ricco o il povero?”. “Il signore e il ricco”, rispose Francesco. E subito la voce incalzò: “E allora perché lasci il Signore per il servo; Dio, così ricco, per l’uomo, così  povero?”. Francesco,  allora: “Signore, che cosa vuoi che io faccia?”. “Ritorna nella tua terra – rispose il Signore – perché la visione che tu hai avuto prefigura una realtà spirituale, che si deve compiere in te, non per disposizione umana, ma per disposizione divina” […]» (LegM I,3.: FF 1031-1032).

Come per tutti i sogni, decisiva anche qui è la funzione dell’interprete, di un interlocutore, perché, come dice il Talmud, «i sogni vanno secondo la bocca»24, a cui fa eco il detto che «un sogno non interpretato è come una lettera non letta».[25]

La Leggenda dei tre Compagni ci permette di cogliere qualcosa di più di più di questo momento: «Destatosi, egli si mise a riflettere attentamente su questa rivelazione. E come la prima visione lo aveva proiettato quasi totalmente fuori di sé per la grande gioia nata dal desiderio di successi temporali, così questa nuova visione lo raccolse tutto dentro di sé. Ripensava con stupore e così intensamente alla scossa del messaggio ricevuto, che quella notte non riuscì più a chiudere occhio. Spuntato il mattino, in gran fretta fece ritorno verso Assisi, lieto e pieno di esultanza. Ed era in attesa che il Signore, il quale gli aveva inviato queste visioni, gli svelasse la sua volontà, indicandogli con il suo consiglio la via della salvezza. Mutato interiormente, non gli importava più di andare in Puglia e desiderava solo di conformarsi al volere divino» (6: FF 1401).

Curioso il fatto che nella prima edizione delle Fonti francescane, probabilmente per un eccesso interpretativo del traduttore, in questo stesso brano fa una breve comparsa il nostro co-protagonista e lo fa associato a un verbo a dir poco inusuale: «Spuntato il mattino, in gran fretta dirottò il cavallo verso Assisi, lieto ed esultante»[26].

Come nell'incontro col lebbroso Francesco dovette far violenza al proprio istinto per smontare da cavallo  a offrirgli un denaro, baciandogli la mano, così dovette qui dirottare il proprio cavallo, con morso e briglie, per convincerlo a rinunciare ai criteri mondani che lo guidavano. 


Parte terza
Un cavallo di cui liberarsi


La biografie pongono dopo il ritorno da Spoleto il più volte citato episodio dell’incontro con il lebbroso, un incontro inaspettato che lo riempì di orrore. «Ma, ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare soldato di Cristo doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e questi, mentre stendeva stendeva a lui la mano come per ricevere l’elemosina, ne ebbe il denaro con un bacio» (LegM I,5: FF 1034). «Da quel giorno cominciò progressivamente a non fare più alcun conto di se stesso, fino a giungere alla perfetta vittoria su di sé, con la grazia di Dio» (3Comp 11: FF 1407).

Ma vincere se stessi non è cosa semplice: «Cercava luoghi solitari, amici al pianto; là, abbandonandosi a lunghe e insistenti preghiere, fra gemiti inenarrabili, meritò di essere esaudito dal Signore. Mentre infatti un giorno, pregava, così isolato dal mondo, ed era tutto assorto in Dio, nell'eccesso del suo fervore, gli apparve Cristo Gesù, come uno confitto in croce. Al vederlo, si sentì sciogliere l’anima. Il ricordo della passione di Cristo si impresse così vivamente nelle più intime viscere del suo cuore che, da quel momento, quando gli veniva alla mente la crocifissione di Cristo, a stento poteva trattenersi, anche esteriormente, dalle lacrime e dai sospiri, come egli stesso riferì in confidenza più tardi, quando si stava avvicinando alla morte. L’uomo di Dio comprese che, per mezzo di questa visione, veniva detta per lui quella massima del Vangelo: Se vuoi venire dietro a me, rinnega te stesso, prendi la tua croce e seguimi» (LegM I,5: FF 1035). 

La Leggenda dei tre Compagni così racconta le emozioni e i sentimenti di quei momenti: «Il nemico del genere umano, che lo teneva d’occhio, si sforzava di ritrarlo dalla buona via, incutendogli paura e orrore. C’era infatti in Assisi una donna mostruosamente ingobbita e il demonio, apparendo all'uomo di Dio, gliela riportava alla memoria, minacciandolo che, se non si ritraeva dai suoi propositi, avrebbe inflitto a lui la deformità di quella donna. Ma il fortissimo cavaliere di Cristo, non curando le minacce del diavolo, pregava devotamente che Dio guidasse il suo cammino. Pativa nell'intimo sofferenza indicibile  e  angoscia, poiché  non  riusciva  a  trovare serenità fino a tanto che non avesse realizzato i propositi della sua mente. I pensieri più contrastanti si succedevano l’un l’altro e la loro importunità lo sconvolgeva duramente. Dentro però gli dava un fuoco divino, e non riusciva a celare esteriormente l’ardore divampato. Era affranto dal pentimento di aver così gravemente peccato, ma le colpe passate e le tentazioni presenti non lo allettavano più, sebbene non fosse ancora sicuro di potersene astenere in futuro» (12: FF 1409).

Non è difficile immaginare quale fosse in quel periodo lo stato d'animo di Francesco: un pezzo dopo l’altro i suoi sogni si andavano infrangendo, il suo castello, il bel palazzo pieno di armature e stendardi indicatogli nel sogno dallo stesso Cristo, si andava sgretolando... come la piccola chiesa di San Damiano, posta fuori dalle mura della città: «Egli era un giorno uscito nella campagna per meditare. Trovandosi a passare vicino alla chiesa di San Damiano, che per l’eccessiva vecchiezza minacciava rovina, spinto dall'impulso dello Spirito Santo, vi entrò per pregare. Mentre pregava inginocchiato davanti all'immagine del Crocifisso, si sentì invadere da una grande consolazione spirituale e, fissando gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore, udì con gli orecchi del corpo una voce scendere verso di lui dalla croce e dirgli per tre volte: “Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina!”. All'udire quella voce così meravigliosa, Francesco rimane stupito e tutto tremante, perché nella chiesa è solo, e, percependo nel cuore la forza del linguaggio divino, si sente rapito fuori dei sensi. Tornato finalmente in sé, si accinge ad obbedire, si concentra  tutto  nella missione di riparare la chiesa di mura, benché la parola divina si riferisse principalmente a quella Chiesa, che Cristo acquistò col suo sangue, come lo Spirito Santo gli avrebbe fatto capire e come egli stesso rivelò in seguito ai frati. Si alzò pertanto, munendosi del segno della croce e, prese con sé delle stoffe da vendere, si affrettò verso la città di Foligno. Qui vendette tutto quanto aveva portato; si liberò anche, mercante fortunato, del cavallo, col quale era venuto, incassandone il prezzo» (LegM II, 1: FF 1038-1039).

Se immediatamente Francesco interpretò le parole del Crocifisso come un invito a restaurare quella chiesa (e non solo quella, visto che poi mise mano anche a quella di San Pietro e quindi alla Porziuncola), sotto la sua guida – così scrive san Bonaventura – «si sarebbe rinnovata la Chiesa in tre modi – secondo la forma di vita, secondo la Regola e secondo la dottrina di Cristo da lui proposte» (LegM II,8: FF 1050). E ciò conformemente a un altro sogno, quello di Innocenzo III, a cui fu così rivelata la missione di Francesco, «che con la sua opera e dottrina sosterrà la chiesa di Cristo» (III,10: FF 1064).

Ma se il primo riparare figurava e anticipava il secondo, tra i due ce n’è sicuramente un altro a cui il Signore chiamava Francesco. In quel va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina, non  possiamo non leggere anche, e forse innanzitutto, l’invito a lui rivolto a mettere finalmente mano alla sua vita tutta in rovina, a riparare quella casa, quel “tempio”, non più però come cosa “sua”,  ma, dice il Crocifisso, “mia”. Dall'adorare sé stesso all'offrire sé stesso come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cf. Rm 12,1), un invito a quel decentramento di cui ci sembra trovare traccia nella Vita prima là dove il primo biografo scrive che «la prima  opera cui Francesco pose mano, appena libero dal giogo del padre terreno, fu di riedificare un tempio a Dio. Non pensava di costruirne uno nuovo, ma restaurò una chiesa antica e malridotta; non scalzò le fondamenta, ma edificò su di esse, lasciandone così, senza saperlo, il primato a Cristo. Nessuno infatti potrebbe creare un altro fondamento all'infuori di quello che già è stato posto: Gesù Cristo» (18: FF 350).

Ma, come dice la Leggenda dei tre Compagni, Francesco anche quella volta fraintese e, «uscito dalla chiesa, trovò il sacerdote seduto lì accanto e, mettendo mano alla borsa, gli offrì una certa somma di denaro, dicendo “Messere, ti prego di comprare l’olio per fare ardere una lampada dinanzi a quel Crocifisso. E quando a tale scopo questi denari saranno finiti, ti offrirò di nuovo quello di cui c’è bisogno» (13: FF 1411). E così poco dopo continua: «Gioioso per la visione e le parole del Crocifisso, Francesco si alzò, si fece il segno della croce e poi, salito a cavallo e portando con sé delle stoffe di diversi colori, andò alla città di Foligno, dove vendette il cavallo e tutta la merce che portava e tornò subito a San Damiano» (16: FF 1415).

“Mercante fortunato” vendette, anzi – per dirla con la stessa Leggenda maggiore – “si liberò” anche del cavallo (cf. II,1: FF 1039) e questa volta – non lo dicono i biografi ma possiamo ben immaginarlo – tornò a casa a piedi o, come popolarmente si sarebbe poi detto, “col cavallo di san Francesco”. Da allora a cavallo ci tornò raramente, giusto quando costretto dalla malattia (cf. 2Cel 77: FF 665; 96: FF 683) così come aveva voluto che si scrivesse nella Regola, dove dispone che i frati «non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità» (Rb III,12: FF 85; cf. Rnb XV,2: FF 41).

Fine del terzo atto

A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.


Indice
Atto terzo: cavallo e cavaliere
- parte prima: un cavallo da cui scendere
- parte seconda: un cavallo da dirottare
- parte terza: un cavallo di cui liberarsi
Epilogo: nella chiesa dietro a Cristo

Note

[16]  FABRICE HADJADJ, Francesco d’Assisi, il santo della crisi, in L’utopia di Francesco d’Assisi, a cura di Ugo Sartorio, Padova, Edizioni Messaggero Padova, 2013, pp 49-50.

[17] Cf. 1Cel 17: FF 348; 2Cel 9: FF 592; LegM 5: FF 1034; 3Comp 9: FF 592.

[18]  La Vita Martini scritta da Sulpicio Severo con ogni probabilità lo stesso anno della morte del maestro, il vescovo Martino di Tours (316ca-397), ebbe una grande diffusione tanto da diventare un modello delle successive vite dei santi. Martino fu tra i primi santi non martiri della chiesa e la sua Vita divenne un exemplum per la nuova condizione di vita del cristiano. A seguito dell’editto di Milano che nel 313 aveva concesso ai cittadini d’Oriente e Occidente la libertà  di onorare le proprie divinità era infatti necessario trovare un modello di santità “alternativo” a quello fino ad allora quasi esclusivo del martire.

[19] Si noti come la sequenza negli affreschi del dono del mantello e del sogno (in cui lo stesso mantello dato da Francesco al cavaliere povero ricopre poi lo stesso Francesco dormiente) ricalca quella del ciclo pittorico dedicato al santo vescovo nella omonima cappella della chiesa inferiore e ciò concordemente alla sua Vita, in cui la notte seguente all'incontro con il povero ignudo, «dopo essersi abbandonato al sonno, vide Cristo vestito dalla parte della sua clamide con cui aveva ricoperto il povero. Gli fu ordinato di fissare con la massima attenzione il Signore e di riconoscere la veste che aveva offerto. Quindi sentì Gesù dire a chiara voce alla moltitudine degli angeli che gli stavano intorno: “Martino, ancora catecumeno, mi ha ricoperto con questa veste”. Davvero memore delle proprie parole, il Signore, che un tempo aveva proclamato: “Ogni volta che avete fatto ciò per uno solo di questi più piccoli, l’avete fatto per me”, riconobbe apertamente d’essere stato rivestito lui nella persona del povero. E a conferma della testimonianza di una così buona opera, si degnò di mostrarsi in quello stesso abito che il povero aveva ricevuto» (SULPICIO SEVERO, Vita di Martino, Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Fabio Ruggiero, Bologna, EDB, 2003, 3,3-4, p. 85.

[20] Non c’è nessun cavallo nel triplice racconto di quell'esperienza fatto dallo stesso san Paolo contenuto negli Atti degli apostoli, eppure si è soliti immaginarsela più che come una semplice caduta a terra come un più drammatico disarcionamento da cavallo, in questo certamente condizionati dall'interpretazione artistica, debitrice in questo del modello medioevale che rappresentava il peccato della superbia appunto come un cavaliere disarcionato. Celebre in tal senso la Conversione di san Paolo del Caravaggio, dipinto del 1601 conservato nella Cappella Cerasi della basilica romana di Santa Maria del Popolo, ironicamente soprannominata la Conversione del cavallo per la sua rilevanza nella scena.

[21]  Così la Vita di Martino racconta l’episodio: «un giorno in cui non aveva con sé proprio niente all'infuori delle armi e dei soli indumenti della divisa militare, nel cuore dell’inverno che era più rigido del solito, al punto che il rigore del gelo spegneva le vite di molti, s’imbatté, alla porta di Amiens, in un povero ignudo. Poiché questi implorava la compassione dei passanti e tutti, evitando lo sventurato, proseguivano oltre, quell'uomo pieno di Dio comprese che il povero, cui gli altri non accordavano un gesto di misericordia, era a lui riservato. Che fare? Non aveva niente all'infuori della clamide che indossava, poiché il resto già l’aveva dato vi in un’analoga opera di carità. Così, afferrata prontamente la spada di cui era cinto, divise la clamide a metà: una parte la donò al povero e la rimanente se la rimise indosso […]» (SULPICIO SEVERO, cit., 3,1-2, pp. 83.85).

[22] Si pensi anche al cavallo e cavaliere gettati in mare in Es 15,1 e 21 o, nei salmi, espressioni come «un’illusione è il cavallo per la vittoria» (33,17), «non apprezza il vigore del cavallo, non gradisce la corsa dell’uomo» (147,10) o, in Sir, «un cavallo non domato diventa caparbio, un figlio lasciato a sé stesso diventa testardo» (30,8).

[23] TOBIE NATHAN, Una nuova interpretazione dei sogni, Milano, Raffaello Cortina, 2011, p. 15

[24] Talmud Babilonese. Trattato Berakhòt (Benedizioni), a cura di David Gianfranco Di Segni, tomo 2, Firenze, Giuntina, 2017, 55b/2, p. 247.

[25] Idem, 55a/3, p. 243.

[26] Assisi, Movimento Francescano, 1977. Il testo latino dice così: «Mane itaque facto, versus Assisium revertitur festinanter, laetus et gaudens quamplurimum, exspectansque voluntatem Domini qui sibi haec ostenderat et de salute sua ab ipso consilium sibi dare» (6,12: Fontes Franciscani, Santa Maria degli Angeli-Assisi, Edizioni Porziuncola, 1995, p. 1379).

sabato 5 ottobre 2019

Francesco d'Assisi: dalla schiavitù alla libertà - Atto secondo: la libertà


È nella cosiddetta rinuncia dei beni che vediamo il punto di svolta, il momento in cui le cose prendono una direzione diversa, radicalmente “nuova”. La scena è rappresentata sulla parete nord della seconda campata in una posizione di per sé non particolarmente significativa. Ma a sottolinearne la centralità è, anche in questo caso, la scenografia. Ovviamente l’effetto era più evidente quando i colori erano nel loro splendore.


Nella elaborazione virtuale dell’immagine per la mostra I colori di Giotto. La Basilica di Assisi tra restauro e restituzione virtuale, tenutasi in Assisi nel 2010, [10] l’effetto dell’azzurrite rende palpabile la distanza venutasi in quel momento a creare tra Pietro di Bernadone e il figlio Francesco, e tra chi, spettatore più o meno consapevole dell'episodio che dovette animare la vita della piccola città, si schiera più o meno convintamente per l'uno o per l'altro. Una separazione netta, incolmabile, un taglio che non divide soltanto la scena, ma l'intera storia: il prima, rappresentato dagli abiti di Francesco ormai restituiti al padre, trattenuto con forza da chi teme un gesto incontrollato, preoccupato del che cosa ancora gli manca; il dopo, che inizia dalla nudità di Francesco, condizione in cui egli si libera di tutto ciò che sente di avere di troppo (anche le mutande), in una nuova nascita dal grembo di una nuova madre, la chiesa, qui impersonificata dal vescovo Guido che lo avvolge col mantello in un gesto di materna accoglienza e protezione. [11]

Lo sguardo di Francesco è rivolto verso l’altro dove, sopra la figura del padre terreno, compare la mano benedicente di un altro Padre, quello celeste, non in opposizione, ma in una sorta di completamento o compimento di paternità. [12]

Ma ascoltiamo il racconto che ne fa san Bonventura: «Quel padre carnale cercava, poi, di indurre quel figlio della grazia, ormai spogliato del denaro, a presentarsi davanti al vescovo della città, per fargli rinunciare, nella mani di lui, all'eredità paterna e restituire tutto ciò che aveva. Il vero amatore della povertà accettò prontamente questa proposta. Giunto alla presenza del vescovo, non sopporta indugi o esitazioni, non aspetta né fa parole; ma, immediatamente, depone tutti i vestiti e li restituisce al padre. Si scoprì allora che l’uomo di Dio, sotto le vesti delicate, portava sulle carni un cilicio. Poi, inebriato da un ammirabile fervore di spirito, depose anche le mutande e si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: “Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con sicurezza: Padre nostro, che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza”. Il vescovo, vedendo ciò e ammirando l’uomo di Dio nel suo fervore senza limiti, subito si alzò, lo prese fra le sue braccia e, pietoso e buono com'era, lo ricoprì con il suo stesso pallio. Comandò poi ai suoi di dare qualcosa al giovane per coprirsi» (LegM II,4: FF 1043).

Una nudità che se indubbiamente dice la povertà abbracciata da Francesco per seguire «il nudo Signore crocifisso, oggetto del suo amore» (Ibid.), non meno – e forse soprattutto – dice la libertà alla quale è finalmente – anche se non completamente – giunto. E a dircelo, più che le biografie, sono ancora una volta queste immagini: basterà seguire lo sguardo stesso di Francesco lasciandosi condurre oltre i margini dell’affresco.


Se si traccia una retta che partendo dai suoi occhi e passando dalla mano del Padre celeste si prolunga verso l'alto, oltrepassato il cornicione e attraversato il registro mediano con l'episodio del sacrificio di Isacco (in cui, guarda caso, è in gioco una relazione tra padre e figlio), ci si trova in quello soprastante con La creazione di Eva. Nata dalla costola di Adamo dormiente, ella sta con lui davanti al Creatore nella condizione così descritta dal testo sacro: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2,25).


«L’uomo – si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica [13] – era integro e ordinato in tutto il suo essere, perché libero dalla triplice concupiscenza che lo rende schiavo dei piaceri dei sensi, della cupidigia dei beni terreni e dell’affermazione di sé contro gli imperativi della ragione» (377).

Ma «tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del Creatore e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio» (397). «Ha fatto la scelta di sé stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione di creatura e conseguentemente contro il suo proprio bene» (398). E la conseguenza drammatica di tutto questo è per i nostri progenitori la perdita della «grazia della santità originale. Hanno paura di quel Dio di cui si sono fatti una falsa immagine, quella cioè di un Dio geloso delle proprie prerogative» (399).

«Allora – continua il testo sacro e, coerentemente, anche la sequenza degli affreschi – si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e ne fecero cinture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”» (Gen 3,7-10).


Il parallelo tra la santità originale dei progenitori espressa dalla loro nudità e la nudità di Francesco può essere illuminato dal Prefazio delle sante vergini e dei santi religiosi del Messale romano dove così si rende grazie: «Nei tuoi santi, che per il regno dei cieli hanno consacrato la vita a Cristo tuo Figlio, noi celebriamo, o Padre, l'iniziativa mirabile del tuo amore, poiché tu riporti l'uomo alla santità della sua prima origine e gli fai pregustare i doni che a lui prepari nel mondo rinnovato». [14]

La condizione compromessa dall'antica disobbedienza è nuovamente resa possibile all'uomo. E Francesco ne diventa un esempio: attraverso la contemplazione del Cristo nudo del crocifisso di San Damiano giunge a lasciarsi da lui guardare nella “nuda” verità di sé. Si sente finalmente amato per quello che è e non per quello che ha o fa, o potrebbe avere o fare, vive un'esperienza liberante che gli permette di guardarsi e di lasciarsi guardare dagli altri – a cominciare da suo padre –, senza più paure, prima fra tutte quella di deludere le altrui come anche le proprie aspettative. Forse proprio ripensando a quel momento dirà: «Beato quel servo il quale non si ritiene migliore, quando viene magnificato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non più» (Am XIX,1-2: FF 169).

La libertà – già lo accennavamo – è comunque una dimensione mai completamente raggiunta finché si è pellegrini in questo mondo. E Francesco continuerà a spogliarsi, fino al compiersi della sua esistenza: «Nell'anno ventesimo della sua conversione, pertanto, chiese che lo portassero a Santa Maria della Porziuncola, per rendere a Dio lo spirito della vita, là dove aveva ricevuto lo spirito
della grazia. Quando vi fu condotto, per dimostrare con l’autenticità dell’esempio che non aveva nulla in comune con il mondo, durante quella malattia così grave che pose fine a ogni infermità, egli si prostrò in fervore di spirito, tutto nudo sulla nuda terra: così, in quell'ora estrema nella quale il nemico poteva ancora scatenare la sua ira, avrebbe potuto lottare nudo con lui nudo. Così, disteso sulla terra, dopo aver deposto la veste di sacco, sollevò la faccia al cielo, secondo la sua abitudine, totalmente intento a quella gloria celeste, mentre con la mano sinistra copriva la ferita del fianco destro perché non si vedesse. E disse hai frati: “Io ho fatto la mia parte; la vostra Cristo ve la insegni”» (LegM XIV,3: FF 1239). E così ancora: «Volle certamente essere conforme in tutto a Cristo crocifisso, che povero e dolente e nudo rimase appeso sulla croce. Per questo motivo, all'inizio della sua conversione, rimase nudo davanti al vescovo; per questo motivo, alla fine della vita, volle uscire nudo dal mondo, e ai frati che gli stavano intorno ingiunse in obbedienza di carità che, dopo morto, lo lasciassero nudo là sulla terra per il tratto di tempo necessario a percorrere comodamente un miglio» (XIV,4: FF 1240). [15]

Fine del secondo atto

A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.


Indice

Atto primo: la schiavitù
Atto secondo: la libertà
- parte prima: un cavallo da cui scendere
- parte seconda: un cavallo da dirottare
- parte terza: un cavallo di cui liberarsi


Note

[10] La mostra si è svolta tra la Basilica di San Francesco e il Palazzo del Monte Frumentario dall'11 aprile al 26 settembre 2010. Il catalogo I colori di Giotto. La Basilica di Assisi: restauro e restituzione virtuale, a cura di Bruno Basile, è stato editato da Silvana Editoriale nello stesso anno. Si veda in proposito la pagina web https://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_805485984.html da cui è tratta l'immagine qui pubblicata.

[11] Interessanti a questo proposito alcuni passaggi dell’incontro L’uomo essere di mancanza dell’edizione 2015 del “Meeting per l’amicizia fra i popoli” di Rimini. L’evento, a cui hanno partecipato Carlo Sini, dell'Università di Milano, ed Eugenio Mazzarella, dell'Università Federico II di Napoli, è stato introdotto e moderato da Costantino Esposito, dell'Università di Bari, che, nel corso della conversazione, ha rivolto a Sini questa domanda: «Possiamo leggere la mancanza come un segno? E, soprattutto, di che cosa essa alla fine sarebbe segno?». Per comodità si riporta qui uno stralcio della più articolata risposta tratta dalla trascrizione “non rivista dai relatori” dell’intero incontro pubblicata nella pagina web https://www.meetingrimini.org/eventi-totale/luomo-essere-di-mancanza/ dove è presente anche il  video  integrale dello  stesso: «È  una domanda centrale, e io vi chiedo di seguirmi in questa esemplificazione, che vuole essere di grande considerazione, naturalmente, perché vorrei affrontare proprio il desiderio della risposta alla domanda che qui ci riunisce, che potrei formulare così come è già stata formulata: che cosa ci manca? E allora, dicevo, io prendo un esempio che è noto a tutti noi e rispondo con i due, ma ce n'è un terzo poi, protagonisti di questa scena, che sono un mercante, padre di Francesco, e Francesco. Come suona la domanda “cosa ci manca?” alle orecchie del mercante, padre di Francesco? Badate, come suona alle orecchie, credo, di ognuno. Suona così: che cosa c’è di poco? E, quindi, il desiderio, il desiderio di quello che ci manca, perché quello che abbiamo è poco. Ci vuole di più. Tutta la vita, e tutta l’esperienza antropologica, certo, non si è fermata ai primi ciottoli che ricordava Eugenio Mazzarella. Siamo andati sulla luna, come si dice. Che cosa c'è di poco in questo atteggiamento, in questo modo di declinare la domanda, che è così umanamente diffusa, che è la storia antropologica dell’umanità, alla quale tutti cerchiamo in modo salutare di rispondere? Trovare salvezza nella consapevolezza che c’è poco, che dovremmo avere di più, che dovremmo fare di più: in principio è l’azione. In questo modo di vedere, l’atteggiamento del padre di Francesco (e oso dire, di ognuno di noi, in quanto tutti siamo anche figli del padre di Francesco, del commercio universale che si è instaurato sulla terra da migliaia e migliaia di anni) è che tutti noi ci sentiamo in credito verso la vita, in credito, la vita ci deve venire incontro […]. Il padre. Il figlio, come declina il figlio la questione? Di fronte alla domanda “che cosa ci manca?” non si chiede “che cosa c’è di poco?”. È qui l’inaudita grandezza di questa persona, straordinaria, fraintesa poi nella storia. Vi consiglio un bel libro di Antonio Attisani, che ha studiato il teatro di Francesco, giullare di Dio, smentendo tutte le letture da santino, tutte le letture buoniste. Francesco non era affatto buono, era molto più che buono, era pericoloso, era una rivoluzione incarnata del cristianesimo. Come risponde Francesco? Non risponde “che cosa ci manca?” nel senso di “che cosa abbiamo di poco?”. Non lo dice, lo mostra, che è molto più forte che dirlo: “che cosa abbiamo di troppo?”, “che cosa c’è di troppo?”. E devo dire: questa è una declinazione molto forte della domanda “che cosa ci manca?”, l’infinito, il non infinito, ma più concretamente “che cosa c’è di troppo?”. Perché Francesco, tutti lo sappiamo, lo ricordiamo benissimo, si spoglia nudo davanti al padre, davanti a tutti, restituisce il troppo, perché solo così riesce a capire che cosa gli manca davvero. E, dicevo, c’è un terzo personaggio, consentitemi di evocarlo rapidamente, che è il vescovo – o almeno, me l’hanno raccontata così, credo che sia andata proprio così – che, ovviamente, pover'uomo, corre subito a coprire Francesco col mantello, gesto ambiguo – diceva bene Costantino Esposito, è felicemente ambigua la questione. Perché, certo, si può leggere questo simbolicamente, allegoricamente, come è stato fatto. La Chiesa, tutto sommato, si fa carico di Francesco, della sua povertà. Lo si può leggere in un altro modo, però, ed è stato letto anche in quest’altro modo: la Chiesa, come tutte le autorità pubbliche, come tutte le istituzioni, ha in orrore lo scandalo, è moralista, ha paura della povertà di Francesco. Vi ricordo quando Francesco andò a Roma con i suoi compagni per chiedere il riconoscimento della sua regola e venne ammonito, venne rimproverato dalla Curia, perché si presentavano troppo sporchi, troppo laceri. Ma voi pensate di andare davanti al papa così, ripulitevi un po’! E allora io vi chiedo “che cosa c’è di troppo qui?”. Abbiamo il coraggio di questa domanda? Cosa c’è di troppo nella vita di ognuno, naturalmente, cosa c’è di troppo nella vita di ognuno?».

[12] Sul rapporto tra Francesco e il padre Pietro si veda Pietro Maranesi, Chi è mio Padre? Pietro di Bernardone nella spogliazione di Francesco d'Assisi, Santa Maria  degli Angeli-Assisi, Edizioni Porziuncola, 2018, dove nell'introduzione scrive che Francesco «sarà chiamato non a tagliare le sue radici umane, ma ad innestare su di esse un nuovo germoglio, così da rendere quell'humus antico linfa per nuovi frutti» (p. 14).

[13] Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992

[14] Seconda edizione, cit., p. 367.  

[15] «La nudità di Francesco richiama l’Eden. Non è solo penitenza e rinuncia. È nostalgia della purezza originaria. Ha qualcosa della bellezza posta da Dio nel corpo dell’uomo e della donna prima che il peccato ne turbasse il candore. È nudità che si proietta verso lo splendore del corpo risorto, quando la forza di Cristo darà nuova vita anche ai nostri corpi mortali. È nudità che ritrova il sapore del vero e del bello, della semplicità e della sobrietà, della serena consapevolezza della propria creaturalità. Francesco incarna la saggezza di Giobbe: “Nudo uscii dal seno di mia madre, nudo vi ritornerò” (Gb 1,21)» (DOMENICO SORRENTINO, Il Santuario della spogliazione. Lettera pastorale, 25 dicembre 2016, n. 4).