giovedì 3 ottobre 2019

Francesco d'Assisi: dalla schiavitù alla libertà - Atto primo: la schiavitù


Unico tra tutti gli antichi biografi, san Bonaventura racconta nella Leggenda maggiore che «un uomo di Assisi molto semplice, ammaestrato, come si crede, da Dio, ogni volta che incontrava Francesco per le strade della città si toglieva il mantello e lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco era degno di ogni venerazione, perché di lì a poco avrebbe compiuto grandi cose, per cui sarebbe stato onorato e magnificato da tutti i cristiani» (1,1: Fonti francescane, III ed. rivista e aggiornata, Padova, Edizioni francescane, 2011 [d'ora in poi FF] 1029). A questo episodio fa riferimento il primo quadro delle giottesche Storie di san Francesco affrescate alla fine del XIII secolo nella chiesa superiore della basilica fatta costruire in Assisi da papa Gregorio IX per custodire il corpo del Poverello, celebrarne la virtù, ma anche per mostrare al mondo questo nuovo modello di santità. [1] 

Un inizio, o forse più propriamente un vero e proprio ingresso questo di Francesco, come quello di Gesù a Gerusalemme (cf. Lc 19,36) a cui il biografo sembra voler alludere. 

Ma la rappresentazione artistica va ben oltre il racconto: non è un’anonima strada di Assisi a far da sfondo al gesto del sempliciotto, ma la piazza principale della città, con l’inconfondibile facciata (anche se per l’occasione un po’ ingentilita) dell’antico tempio che una certa tradizione vuole dedicato alla dea Minerva. L’edificio, però, già da tempo era stato convertito ad altri usi: prima al culto cristiano e poi, nel 1212, ceduto dai benedettini ai consoli della città per farne, tra l’altro, il carcere comunale a cui rimandano nell'affresco le grate alle finestre e l'assenza – quasi a voler rafforzare l’idea della inviolabilità - della pur documentata porta di accesso. [2] 

Un luogo – quello del tempio divenuto un carcere – particolarmente significativo, almeno a guardare lo spazio che occupa nella scena dove i due attori, se non proprio ai margini, sono collocati in una posizione comunque secondaria. 

Se è eccessivo parlare di una sorta di protagonismo di questo elemento, non lo si può nemmeno relegare a qualcosa di semplicemente decorativo: non è possibile ignorarlo e, forse, vale addirittura la pena di considerare quello che dice o, meglio, per quello che sembra far dire al vero protagonista dell’intera vicenda, a Francesco, proprio nel momento del suo ingresso in scena, nell'incipit in cui ogni buon narratore offre al suo lettore la trama dell’intera vicenda. 

Dunque, guardando, ascoltiamo: «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo» (2Test 1-3: FF 110). Così suona un altro incipit "sanfrancescano", un altro ingresso, quello del Testamento del 1226. «Tra i molti racconti giunti fino a noi sulla conversione di Francesco, ve ne è uno del tutto speciale e particolare: quello narrato dal protagonista stesso nel suo Testamento. Ed è di estremo valore il dato di fatto che il primo ricordo, quello che non solo apre le memorie ma dà anche l’avvio alla sua esistenza evangelica, fa riferimento proprio agli eventi risolutivi che lo portarono alla conversione. È chiaro che il processo di trasformazione della sua persona è molto più articolato e complesso di quanto Francesco stesso racconta nelle prime tre brevi righe del suo Testamento. Tuttavia, tra i tanti avvenimenti che toccarono la sua persona e la condussero alla conversione, quello ricordato come risolutivo e fondamentale è stato sintetizzato con queste parole». [3] 

Se quello dell’incontro col lebbroso fu davvero l’avvenimento risolutivo e fondamentale della conversione di Francesco, stupisce il fatto che non abbia trovato spazio tra quelli affrescati in Assisi (e non solo nella chiesa superiore) e di non trovarlo nemmeno nelle più antiche rappresentazioni della sua storia dove, secondo alcuni, «gli artisti si sono inizialmente accontentati di trattare un piccolo numero di soggetti, tutti destinati a mettere in luce la forza miracolistica del santo e il suo pieno diritto a essere venerato dai fedeli». [4] 

Ma quello che non si vede non è detto che non ci sia. Le parole con cui Francesco nel Testamento confessa la sua condizione nei peccati in cui gli sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi ci sembrano risuonare proprio qui, nella scena illustrata a fresco da una mano, quella dell’artista e della sua bottega, con tutta probabilità guidata come altrove da una sapiente regia. Nell'immagine dell’antico tempio dedicato al culto della divinità romana della lealtà nella lotta, delle virtù eroiche, della guerra “giusta”, della saggezza, ma anche – guarda caso – delle tessiture, Francesco sembra volerci dire il suo stato di partenza, il quando ero nei peccati

Su quali fossero i peccati di Francesco non tacciono – probabilmente seguendo in questo un certo genere letterario agiografico – gli antichi biografici. Tommaso da Celano, all'inizio della Vita prima, scrive che «Dai genitori fu allevato fin dall'infanzia in modo dissoluto secondo le vanità del mondo e, imitando la loro misera vita, divenne ancora più misero e vanitoso» (1: FF 317). E come se non bastasse così continua: «Anzi, precedendo in queste vanità tutti i suoi coetanei, si era fatto promotore ed emulo di mali e di stoltezze. Oggetto di meraviglia per tutti, cercava di eccellere sugli altri ovunque e con smisurata ambizione: nei giochi, nelle raffinatezze, nelle parole scurrili e sciocche, nei canti, nelle vesti sfarzose e fluenti. E veramente era molto ricco, ma non avaro, anzi prodigo; non avido di denaro, ma dissipatore; mercante avveduto, ma munificentissimo per vanagloria; di più, era molto cortese, accondiscendente e molto affabile, sebbene a suo svantaggio. Appunto per questi motivi molti, votati all'iniquità e cattivi istigatori, si schieravano con lui» (2: FF 320). E poi ancora: «Ecco dunque quest’uomo vivere nel peccato con passione giovanile. La sua incostante età lo spingeva a soddisfare le tendenze giovanili senza moderazione; incapace di controllarsi, era agitato dal veleno dell’antico serpente» (3: FF 322). 

Molto più moderato san Bonaventura che liquida la questione con poche parole: «Nell'età giovanile, crebbe tra le vanità dei vani figli degli uomini. Dopo un’istruzione sommaria, venne destinato alla lucrosa attività del commercio» (LegM I,1: FF 1027). 

In un’altra biografia, la Leggenda dei tre Compagni – considerata oggi una delle più importanti, capace di «dare, come poche altre nel suo genere, un ritratto efficace dell’itinerario psicologico e spirituale di Francesco, dei suoi turbamenti interiori e delle sue progressive conquiste, guadagnate attraverso una dura lotta con se stesso e un’inesausta ricerca della volontà di Dio» [5] –, così si legge: «Francesco era tanto più allegro e generoso, dedito ai giochi e ai canti, girovagava per la città di Assisi giorno e notte con amici del suo stampo, tanto generoso nello spendere da dissipare in pranzi e altre cose tutto quello che poteva avere o guadagnare. Per questo motivo i genitori gli rimproveravano di fare spese così esagerate per sé e per gli altri, da sembrare non loro figlio, ma il rampollo di un gran principe. Ma siccome erano ricchi e lo amavano teneramente, lasciavano correre su quel comportamento, non volendolo contristare. La madre, quando sentiva i vicini parlare della prodigalità del giovane, rispondeva: “Che ne pensate di mio figlio? Sarà sempre un figlio di Dio, per sua grazia”. Quanto a lui, non era spendaccione soltanto in pranzi e divertimenti, ma passava ogni limite anche nel vestire, facendosi confezionare abiti più sontuosi di quelli che gli conveniva avere. Nella ricerca dell’originalità era tanto vano, che a volte faceva cucire insieme nello stesso indumento stoffa assai preziosa e panno di nessun valore» (2: FF 1396). 

Indirettamente è questa stessa fonte a dirci qual era il peccato di Francesco là dove si legge – almeno in una precedente traduzione – che ad un certo punto «smise di adorare se stesso» (8: FF 1403). [6] 

Sant'Agostino lo chiamerebbe amor sui, cioè il chiudersi dell’uomo in sé stesso, l’aspirazione e la volontà di realizzare sé stesso indipendentemente dalla grazia, farsi centro del mondo e della storia nella pretesa di trovare tutto in sé. «Ma l’uomo non è Dio e non può diventarlo, per quanti sforzi faccia. È, invece, un essere povero e debole, che ha bisogno di ricevere; ma non volendo ricevere da Dio che “è” e che, quando dona, fa “essere”, è costretto a rivolgersi alle cose che – staccate dal loro rapporto vitale con Dio – “non sono” e che, quando danno, fanno “non essere”, ma chiedono di essere servite, cosicché, cercando nelle cose quello che non trova in sé stesso, l’uomo diviene schiavo di esse, si vende al “nulla”, all'inconsistente. In tal modo l’uomo, che voleva essere Dio a se stesso, si trova in uno stato di profonda miseria spirituale, servo delle proprie passioni, interiormente lacerato e diviso tra il desiderio di fare il bene e l’incapacità di realizzarlo, in perpetuo conflitto con gli altri, che, invece di essere fratelli ed amici, sono estranei, avversari, nemici». [7] 

Parole che possono bene applicarsi alla condizione di Francesco e, in quella condizione, all'essergli cosa troppo amara vedere i lebbrosi. Il lebbroso, rappresentante dell’altro da cui difendersi, da evitare, da tenere lontano, il cui “contagio” fa drammaticamente precipitare dall'illusione alla realtà. E per difendersi da questo "altro" si alzano barriere, si costruiscono muri, senza accorgersi che quella che immediatamente può sembrare una difesa finisce per trasformarsi in una prigione. 

A questa introduzione sembra far eco la conclusione della storia, in una logica “curiosa” se si pensa che – come sostengono gli studiosi – se proprio non fu l’ultima ad essere eseguita, la prima scena è comunque dello stesso cantiere che dipinse le tre finali.[8] Del resto, diversamente da quello che si potrebbe pensare, solitamente l’introduzione è una delle ultime cose che in un libro vengono scritte: solo alla fine infatti si ha quella visione d’insieme che l’introduzione deve fornire a chi legge. 

E la conclusione è affrescata sulla parete opposta, a sud, proprio di fronte all'introduzione. Si tratta di uno dei miracoli post mortem di Francesco narrato dal primo biografo (3Cel 93: FF 915) e ripreso da san Bonaventura (LegM V,4: FF 1291): la liberazione di Pietro di Alife, un uomo accusato di eresia e affidato da papa Gregorio IX alla custodia del Vescovo di Tivoli che «lo fece incatenare e rinchiudere in un’oscura prigione, dove gli veniva dato il pane a peso e l’acqua secondo misura. Ma quell'uomo, avendo saputo che si approssimava la vigilia della festa di san Francesco, incominciò a invocarlo con molte preghiere e lacrime, perché avesse pietà di lui. E siccome era tornato alla fede sincera, rinnegando ogni errore e ogni prava eresia, e si era affidato con tutta la devozione del cuore a Francesco, fedelissimo servo di Cristo, meritò di essere esaudito dal Signore per i meriti e l’intercessione del santo. La sera della sua festa, mentre già incombeva la notte, il beato Francesco pietosamente scese nel carcere e, chiamando Pietro per nome, gli comandò di alzarsi in fretta. Invaso dal terrore, il prigioniero gli domandò chi fosse e si sentì ripetere che era il beato Francesco. Intanto vedeva che, per la presenza miracolosa del santo, i ceppi erano caduti infranti ai suoi piedi, le porte del carcere si aprivano, mentre i chiodi saltavano via da soli, e gli si spalancava davanti la strada per andarsene. Era libero […]» (Ibid.). 


Così i due quadri, l’inizio e la fine della storia di san Francesco, sembrano suggerirne il sottotitolo: “dalla schiavitù alla libertà”. 

Che poi è la storia che sta sopra, quella dipinta nei due registri superiori della stessa navata: il racconto della creazione e le storie degli antichi patriarchi a nord; il vangelo di Gesù Cristo a sud, la vita “nascosta” e quella “pubblica”: dall'annunciazione al battesimo e dalle nozze di Cana alla risurrezione. È la “storia della salvezza” che lo stesso Francesco così sintetizza, nella forma del rendimento di grazie, nella Regola “non bollata”: «Onnipotente, santissimo, altissimo e sommo Dio, Padre santo e giusto, Signore Re del cielo e della terra, per te stesso ti rendiamo grazie, perché per la tua santa volontà e per il tuo Figlio unigenito con lo Spirito Santo hai creato tutte le cose spirituali e corporali, e noi fatti a tua immagine e somiglianza hai posto in paradiso. E noi per colpa nostra siamo caduti. E ti rendiamo grazie, perché come tu ci hai creato per mezzo del tuo Figlio, cosi per il verace e santo tuo amore, con il quale ci hai amato, hai fatto nascere lo stesso vero Dio e vero uomo dalla gloriosa sempre vergine beatissima santa Maria, e per la croce, il sangue e la morte di lui ci hai voluti redimere dalla schiavitù» (XXIII,1-3: FF 63-64). [9]

Fine del primo atto

A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.


Indice

Atto primo: la schiavitù
- parte prima: un cavallo da cui scendere
- parte seconda: un cavallo da dirottare
- parte terza: un cavallo di cui liberarsi

Note

[1] Nell'anno del Signore 1228, papa Gregorio IX dispose la costruzione in Assisi di una specialis ecclesia (Bolla Recolentes del 29 aprile 1228) che custodisse e onorasse il corpo dell’amico Francesco, ma che nel contempo mostrasse al mondo questo nuovo modello di santità. Proprio a lui – Ugolino dei Conti di Anagni, Cardinale Vescovo di Ostia – papa Onorio III aveva affidato la novitas di frate Francesco e del suo gruppo di “penitenti”, difficile da inquadrare nella struttura della chiesa di allora. La prima pietra del complesso santuariale, comprendente, oltre alla chiesa, la domus per la comunità chiamata a servirla, fu posta il 17 luglio 1228, all'indomani della canonizzazione del Padre Serafico, che lo stesso Pontefice presiedette presso la chiesa di San Giorgio (oggi inglobata nel complesso di Santa Chiara) dove il corpo di Francesco aveva trovato provvisoria sepoltura dopo la morte, avvenuta presso la Porziuncola la sera del 3 ottobre 1226. Il complesso venne edificato sul Collis inferni (così chiamato nell'atto notarile del 30 marzo 1228 in cui frate Elia da Cortona, per conto dello stesso Pontefice, riceveva in dono da Simone di Puzarello il primo appezzamento su cui doveva sorgere il santuario) sul pendio ad ovest della città, verso Perugia. Sembra che il suo nome derivi dal fatto che lì, al di fuori della città, i condannati a morte venivano uccisi e sepolti. Forse una variante di collis inferior per la sua posizione rispetto alla città stessa, luogo depresso, anche in questo una vera e propria “periferia”, probabile rifugio di quanti – come ad esempio i lebbrosi – erano esclusi dalla società e dai suoi luoghi. Una tradizione fa risalire questa scelta allo stesso Francesco: «Onde quando poi el nostro padre Santo Francesco fu appresso alla morte li soy compagni lo adomandarono dicendo: "Padre dove voli essere sepellito?" et illo rispuose: "Dove sonno le forche deli malfactori", la qual cosa poi fo facta imperocché dove è mo lo altare maiore ivi era il luoco della justitia» (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms. Vat. 4354, c. 108, citato in C. PIETRAMELLARA [et al.], Il Sacro Convento di Assisi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 6). Sotto la direzione di frate Elia da Cortona, vicario generale dell’Ordine minoritico dal 1221 al 1227, la costruzione di chiesa e convento procedette speditamente. E ciò anche grazie alle tante maestranze locali impegnate nella edificazione di una chiesa - altra novitas per l'epoca - dedicata a un santo “contemporaneo”, quel Francesco, figlio di Pietro di Bernardone, che dopo una vita “mondana” quella stessa gente vide spogliarsi davanti al vescovo Guido ed elemosinare una pietra per riparare la chiesina di San Damiano. Per ordine di Gregorio IX fu lo stesso Elia a organizzare la traslazione del corpo di Francesco da San Giorgio alla nuova basilica a lui intitolata e che lo stesso Pontefice, qualche settimana prima, aveva dichiarato caput et mater dell’Ordine minoritico (Bolla Is qui Ecclesiam del 22 aprile 1230), affidandone in perpetuo il servitium agli stessi frati. Era il 25 maggio 1230 quando i resti mortali del Santo furono definitivamente sepolti al centro della crociera della chiesa inferiore, a pochi metri di profondità, in un sarcofago di pietra chiuso tra due robuste grate di ferro, là dove verrà successivamente eretto l’altare. È facile immaginare che, una volta eletto Ministro generale dell’Ordine (1232-1239), frate Elia diede ulteriore impulso alla edificazione del santuario, che assunse la caratteristica fisionomia delle due chiese sovrapposte, entrambe a navata unica e pianta cruciforme. E fu così che il colle dell'Inferno - come del resto già ribattezzato dallo stesso Gregorio IX - si trasformò nel colle del Paradiso. La Basilica - e con essa, cosa certamente singolare, anche il convento che iniziò così ad essere chiamato "sacro" (LUDOVICO DA PIETRALUNGA, Descrizione della Basilica di S. Francesco e di altri santuari di Assisi. In appendice Chiesa superiore di anonimo secentesco, introduzione, note al testo e commento critico di Pietro Scarpellini, Treviso, Canova, 1982, p. 51; cf. LUCIANO BERTAZZO, recensione a Il Sacro Convento di Assisi, di C. Pietramellara et al., in: "Il Santo" 1990, 30, 136) - venne solennemente consacrata il 25 maggio 1253 da papa Innocenzo IV durante la permanenza in Assisi (nel patriarchium sul lato nord della complesso santuariale) nel lungo viaggio di ritorno da Lione dove aveva convocato il concilio che scomunicò l'imperatore Federico II. 

[2] Cf. CHIARA FRUGONI, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, Torino, Einaudi, 2015, p. 218. 

[3] PIETRO MARANESI, L’eredità di Frate Francesco. Lettura storico-critica del Testamento, Santa Maria degli Angeli-Assisi, Edizioni Porziuncola, 2009, p. 95. 

[4] HENRY THODE, Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia, a cura di Luciano Bellosi, Roma, Donzelli editore, 2003, p. 97. 

[5] FELICE ACCROCCA, Presentazione della Leggenda dei tre compagni in Fonti francescane, III ed. rivista e aggiornata, Padova, Editrici Francescane, 2011, p. 789. 

[6] 3Comp 8: Fonti francescane, Assisi, Movimento Francescano, 1977, n. 1403. Il testo latino recita: «Ab illa itaque hora coepit sibi vilescere et illa contemnere quae prius habuerat in amore, non tamen adhuc plene quia nondum erat penitus a saeculi vanitate solutus» (Fontes franciscani, Santa Maria degli Angeli-Assisi, Edizioni Porziuncola, 1995, p. 1380) ed è così tradotto nell'edizione 2011 delle stesse Fonti: «E da quell'ora cominciò a sentire umilmente di se stesso e a disprezzare le cose che prima amava, senza tuttavia farlo interamente, perché non si era ancora del tutto sciolto dalle vanità mondane». 

[7] GIUSEPPE DE ROSA, La promozione umana dimensione integrante dell’evangelizzazione, in “La Civiltà Cattolica” 3055-3060, p. 328. 

[8] Cf. CHIARA FRUGONI, cit., p. 219. 

[9] Per la sintonia tra i testi piace qui richiamare la Preghiera eucaristica IV del Messale romano: «Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza: tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore. A tua immagine hai formato l'uomo, alle sue mani operose hai affidato l'universo perché nell'obbedienza a te, suo creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato. E quando, per la sua disobbedienza, l'uomo perse la tua amicizia, tu non l'hai abbandonato in potere della morte, ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare. Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza, e per mezzo dei profeti hai insegnato a sperare nella salvezza. Padre santo, hai tanto amato il mondo da mandare a noi, nella pienezza dei tempi, il tuo unico Figlio come salvatore. Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo ed è nato dalla Vergine Maria; ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana. Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia. Per attuare il tuo disegno di redenzione si consegnò volontariamente alla morte, e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita […]» (Seconda edizione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1983, pp. 412-413).

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