sabato 5 ottobre 2019

Francesco d'Assisi: dalla schiavitù alla libertà - Atto secondo: la libertà


È nella cosiddetta rinuncia dei beni che vediamo il punto di svolta, il momento in cui le cose prendono una direzione diversa, radicalmente “nuova”. La scena è rappresentata sulla parete nord della seconda campata in una posizione di per sé non particolarmente significativa. Ma a sottolinearne la centralità è, anche in questo caso, la scenografia. Ovviamente l’effetto era più evidente quando i colori erano nel loro splendore.


Nella elaborazione virtuale dell’immagine per la mostra I colori di Giotto. La Basilica di Assisi tra restauro e restituzione virtuale, tenutasi in Assisi nel 2010, [10] l’effetto dell’azzurrite rende palpabile la distanza venutasi in quel momento a creare tra Pietro di Bernadone e il figlio Francesco, e tra chi, spettatore più o meno consapevole dell'episodio che dovette animare la vita della piccola città, si schiera più o meno convintamente per l'uno o per l'altro. Una separazione netta, incolmabile, un taglio che non divide soltanto la scena, ma l'intera storia: il prima, rappresentato dagli abiti di Francesco ormai restituiti al padre, trattenuto con forza da chi teme un gesto incontrollato, preoccupato del che cosa ancora gli manca; il dopo, che inizia dalla nudità di Francesco, condizione in cui egli si libera di tutto ciò che sente di avere di troppo (anche le mutande), in una nuova nascita dal grembo di una nuova madre, la chiesa, qui impersonificata dal vescovo Guido che lo avvolge col mantello in un gesto di materna accoglienza e protezione. [11]

Lo sguardo di Francesco è rivolto verso l’altro dove, sopra la figura del padre terreno, compare la mano benedicente di un altro Padre, quello celeste, non in opposizione, ma in una sorta di completamento o compimento di paternità. [12]

Ma ascoltiamo il racconto che ne fa san Bonventura: «Quel padre carnale cercava, poi, di indurre quel figlio della grazia, ormai spogliato del denaro, a presentarsi davanti al vescovo della città, per fargli rinunciare, nella mani di lui, all'eredità paterna e restituire tutto ciò che aveva. Il vero amatore della povertà accettò prontamente questa proposta. Giunto alla presenza del vescovo, non sopporta indugi o esitazioni, non aspetta né fa parole; ma, immediatamente, depone tutti i vestiti e li restituisce al padre. Si scoprì allora che l’uomo di Dio, sotto le vesti delicate, portava sulle carni un cilicio. Poi, inebriato da un ammirabile fervore di spirito, depose anche le mutande e si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: “Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con sicurezza: Padre nostro, che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza”. Il vescovo, vedendo ciò e ammirando l’uomo di Dio nel suo fervore senza limiti, subito si alzò, lo prese fra le sue braccia e, pietoso e buono com'era, lo ricoprì con il suo stesso pallio. Comandò poi ai suoi di dare qualcosa al giovane per coprirsi» (LegM II,4: FF 1043).

Una nudità che se indubbiamente dice la povertà abbracciata da Francesco per seguire «il nudo Signore crocifisso, oggetto del suo amore» (Ibid.), non meno – e forse soprattutto – dice la libertà alla quale è finalmente – anche se non completamente – giunto. E a dircelo, più che le biografie, sono ancora una volta queste immagini: basterà seguire lo sguardo stesso di Francesco lasciandosi condurre oltre i margini dell’affresco.


Se si traccia una retta che partendo dai suoi occhi e passando dalla mano del Padre celeste si prolunga verso l'alto, oltrepassato il cornicione e attraversato il registro mediano con l'episodio del sacrificio di Isacco (in cui, guarda caso, è in gioco una relazione tra padre e figlio), ci si trova in quello soprastante con La creazione di Eva. Nata dalla costola di Adamo dormiente, ella sta con lui davanti al Creatore nella condizione così descritta dal testo sacro: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2,25).


«L’uomo – si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica [13] – era integro e ordinato in tutto il suo essere, perché libero dalla triplice concupiscenza che lo rende schiavo dei piaceri dei sensi, della cupidigia dei beni terreni e dell’affermazione di sé contro gli imperativi della ragione» (377).

Ma «tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del Creatore e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio» (397). «Ha fatto la scelta di sé stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione di creatura e conseguentemente contro il suo proprio bene» (398). E la conseguenza drammatica di tutto questo è per i nostri progenitori la perdita della «grazia della santità originale. Hanno paura di quel Dio di cui si sono fatti una falsa immagine, quella cioè di un Dio geloso delle proprie prerogative» (399).

«Allora – continua il testo sacro e, coerentemente, anche la sequenza degli affreschi – si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e ne fecero cinture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”» (Gen 3,7-10).


Il parallelo tra la santità originale dei progenitori espressa dalla loro nudità e la nudità di Francesco può essere illuminato dal Prefazio delle sante vergini e dei santi religiosi del Messale romano dove così si rende grazie: «Nei tuoi santi, che per il regno dei cieli hanno consacrato la vita a Cristo tuo Figlio, noi celebriamo, o Padre, l'iniziativa mirabile del tuo amore, poiché tu riporti l'uomo alla santità della sua prima origine e gli fai pregustare i doni che a lui prepari nel mondo rinnovato». [14]

La condizione compromessa dall'antica disobbedienza è nuovamente resa possibile all'uomo. E Francesco ne diventa un esempio: attraverso la contemplazione del Cristo nudo del crocifisso di San Damiano giunge a lasciarsi da lui guardare nella “nuda” verità di sé. Si sente finalmente amato per quello che è e non per quello che ha o fa, o potrebbe avere o fare, vive un'esperienza liberante che gli permette di guardarsi e di lasciarsi guardare dagli altri – a cominciare da suo padre –, senza più paure, prima fra tutte quella di deludere le altrui come anche le proprie aspettative. Forse proprio ripensando a quel momento dirà: «Beato quel servo il quale non si ritiene migliore, quando viene magnificato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non più» (Am XIX,1-2: FF 169).

La libertà – già lo accennavamo – è comunque una dimensione mai completamente raggiunta finché si è pellegrini in questo mondo. E Francesco continuerà a spogliarsi, fino al compiersi della sua esistenza: «Nell'anno ventesimo della sua conversione, pertanto, chiese che lo portassero a Santa Maria della Porziuncola, per rendere a Dio lo spirito della vita, là dove aveva ricevuto lo spirito
della grazia. Quando vi fu condotto, per dimostrare con l’autenticità dell’esempio che non aveva nulla in comune con il mondo, durante quella malattia così grave che pose fine a ogni infermità, egli si prostrò in fervore di spirito, tutto nudo sulla nuda terra: così, in quell'ora estrema nella quale il nemico poteva ancora scatenare la sua ira, avrebbe potuto lottare nudo con lui nudo. Così, disteso sulla terra, dopo aver deposto la veste di sacco, sollevò la faccia al cielo, secondo la sua abitudine, totalmente intento a quella gloria celeste, mentre con la mano sinistra copriva la ferita del fianco destro perché non si vedesse. E disse hai frati: “Io ho fatto la mia parte; la vostra Cristo ve la insegni”» (LegM XIV,3: FF 1239). E così ancora: «Volle certamente essere conforme in tutto a Cristo crocifisso, che povero e dolente e nudo rimase appeso sulla croce. Per questo motivo, all'inizio della sua conversione, rimase nudo davanti al vescovo; per questo motivo, alla fine della vita, volle uscire nudo dal mondo, e ai frati che gli stavano intorno ingiunse in obbedienza di carità che, dopo morto, lo lasciassero nudo là sulla terra per il tratto di tempo necessario a percorrere comodamente un miglio» (XIV,4: FF 1240). [15]

Fine del secondo atto

A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.


Indice

Atto primo: la schiavitù
Atto secondo: la libertà
- parte prima: un cavallo da cui scendere
- parte seconda: un cavallo da dirottare
- parte terza: un cavallo di cui liberarsi


Note

[10] La mostra si è svolta tra la Basilica di San Francesco e il Palazzo del Monte Frumentario dall'11 aprile al 26 settembre 2010. Il catalogo I colori di Giotto. La Basilica di Assisi: restauro e restituzione virtuale, a cura di Bruno Basile, è stato editato da Silvana Editoriale nello stesso anno. Si veda in proposito la pagina web https://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_805485984.html da cui è tratta l'immagine qui pubblicata.

[11] Interessanti a questo proposito alcuni passaggi dell’incontro L’uomo essere di mancanza dell’edizione 2015 del “Meeting per l’amicizia fra i popoli” di Rimini. L’evento, a cui hanno partecipato Carlo Sini, dell'Università di Milano, ed Eugenio Mazzarella, dell'Università Federico II di Napoli, è stato introdotto e moderato da Costantino Esposito, dell'Università di Bari, che, nel corso della conversazione, ha rivolto a Sini questa domanda: «Possiamo leggere la mancanza come un segno? E, soprattutto, di che cosa essa alla fine sarebbe segno?». Per comodità si riporta qui uno stralcio della più articolata risposta tratta dalla trascrizione “non rivista dai relatori” dell’intero incontro pubblicata nella pagina web https://www.meetingrimini.org/eventi-totale/luomo-essere-di-mancanza/ dove è presente anche il  video  integrale dello  stesso: «È  una domanda centrale, e io vi chiedo di seguirmi in questa esemplificazione, che vuole essere di grande considerazione, naturalmente, perché vorrei affrontare proprio il desiderio della risposta alla domanda che qui ci riunisce, che potrei formulare così come è già stata formulata: che cosa ci manca? E allora, dicevo, io prendo un esempio che è noto a tutti noi e rispondo con i due, ma ce n'è un terzo poi, protagonisti di questa scena, che sono un mercante, padre di Francesco, e Francesco. Come suona la domanda “cosa ci manca?” alle orecchie del mercante, padre di Francesco? Badate, come suona alle orecchie, credo, di ognuno. Suona così: che cosa c’è di poco? E, quindi, il desiderio, il desiderio di quello che ci manca, perché quello che abbiamo è poco. Ci vuole di più. Tutta la vita, e tutta l’esperienza antropologica, certo, non si è fermata ai primi ciottoli che ricordava Eugenio Mazzarella. Siamo andati sulla luna, come si dice. Che cosa c'è di poco in questo atteggiamento, in questo modo di declinare la domanda, che è così umanamente diffusa, che è la storia antropologica dell’umanità, alla quale tutti cerchiamo in modo salutare di rispondere? Trovare salvezza nella consapevolezza che c’è poco, che dovremmo avere di più, che dovremmo fare di più: in principio è l’azione. In questo modo di vedere, l’atteggiamento del padre di Francesco (e oso dire, di ognuno di noi, in quanto tutti siamo anche figli del padre di Francesco, del commercio universale che si è instaurato sulla terra da migliaia e migliaia di anni) è che tutti noi ci sentiamo in credito verso la vita, in credito, la vita ci deve venire incontro […]. Il padre. Il figlio, come declina il figlio la questione? Di fronte alla domanda “che cosa ci manca?” non si chiede “che cosa c’è di poco?”. È qui l’inaudita grandezza di questa persona, straordinaria, fraintesa poi nella storia. Vi consiglio un bel libro di Antonio Attisani, che ha studiato il teatro di Francesco, giullare di Dio, smentendo tutte le letture da santino, tutte le letture buoniste. Francesco non era affatto buono, era molto più che buono, era pericoloso, era una rivoluzione incarnata del cristianesimo. Come risponde Francesco? Non risponde “che cosa ci manca?” nel senso di “che cosa abbiamo di poco?”. Non lo dice, lo mostra, che è molto più forte che dirlo: “che cosa abbiamo di troppo?”, “che cosa c’è di troppo?”. E devo dire: questa è una declinazione molto forte della domanda “che cosa ci manca?”, l’infinito, il non infinito, ma più concretamente “che cosa c’è di troppo?”. Perché Francesco, tutti lo sappiamo, lo ricordiamo benissimo, si spoglia nudo davanti al padre, davanti a tutti, restituisce il troppo, perché solo così riesce a capire che cosa gli manca davvero. E, dicevo, c’è un terzo personaggio, consentitemi di evocarlo rapidamente, che è il vescovo – o almeno, me l’hanno raccontata così, credo che sia andata proprio così – che, ovviamente, pover'uomo, corre subito a coprire Francesco col mantello, gesto ambiguo – diceva bene Costantino Esposito, è felicemente ambigua la questione. Perché, certo, si può leggere questo simbolicamente, allegoricamente, come è stato fatto. La Chiesa, tutto sommato, si fa carico di Francesco, della sua povertà. Lo si può leggere in un altro modo, però, ed è stato letto anche in quest’altro modo: la Chiesa, come tutte le autorità pubbliche, come tutte le istituzioni, ha in orrore lo scandalo, è moralista, ha paura della povertà di Francesco. Vi ricordo quando Francesco andò a Roma con i suoi compagni per chiedere il riconoscimento della sua regola e venne ammonito, venne rimproverato dalla Curia, perché si presentavano troppo sporchi, troppo laceri. Ma voi pensate di andare davanti al papa così, ripulitevi un po’! E allora io vi chiedo “che cosa c’è di troppo qui?”. Abbiamo il coraggio di questa domanda? Cosa c’è di troppo nella vita di ognuno, naturalmente, cosa c’è di troppo nella vita di ognuno?».

[12] Sul rapporto tra Francesco e il padre Pietro si veda Pietro Maranesi, Chi è mio Padre? Pietro di Bernardone nella spogliazione di Francesco d'Assisi, Santa Maria  degli Angeli-Assisi, Edizioni Porziuncola, 2018, dove nell'introduzione scrive che Francesco «sarà chiamato non a tagliare le sue radici umane, ma ad innestare su di esse un nuovo germoglio, così da rendere quell'humus antico linfa per nuovi frutti» (p. 14).

[13] Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992

[14] Seconda edizione, cit., p. 367.  

[15] «La nudità di Francesco richiama l’Eden. Non è solo penitenza e rinuncia. È nostalgia della purezza originaria. Ha qualcosa della bellezza posta da Dio nel corpo dell’uomo e della donna prima che il peccato ne turbasse il candore. È nudità che si proietta verso lo splendore del corpo risorto, quando la forza di Cristo darà nuova vita anche ai nostri corpi mortali. È nudità che ritrova il sapore del vero e del bello, della semplicità e della sobrietà, della serena consapevolezza della propria creaturalità. Francesco incarna la saggezza di Giobbe: “Nudo uscii dal seno di mia madre, nudo vi ritornerò” (Gb 1,21)» (DOMENICO SORRENTINO, Il Santuario della spogliazione. Lettera pastorale, 25 dicembre 2016, n. 4).

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