mercoledì 9 ottobre 2019

Francesco d'Assisi: dalla schiavitù alla libertà - Atto terzo: cavallo e cavaliere

Non sappiamo quale sia lo spazio temporale che intercorse tra L'omaggio dell’uomo semplice e La rinuncia dei beni che le cronologie collocano tra il 1206 e il 1208: nelle antiche biografie si tratta di pochi paragrafi; nel ciclo pittorico della chiesa superiore della basilica assisana di tre riquadri: Il dono del mantello ad un cavaliere povero, Il sogno del palazzo con armature e stendardi, Il crocifisso di San Damiano che parla a Francesco.

«Sono tre scene comiche e crudeli nello stesso tempo, perché alla chiamata di Dio mediante il povero, mediante l’urgenza del mondo e dentro la Chiesa stessa, Francesco dà una risposta che è buona, ma che è fuori dalla sua vocazione: risponde mediante il denaro, ed è una risposta erronea. Grazie al denaro, la nobiltà non vale più. La ricchezza non riveste il cavaliere povero di nobiltà, ma lo inserisce nella nuova gerarchia dettata dal denaro! L’elemosina di Francesco è ambigua: non è forse una rivincita dopo aver perso la guerra contro la nobiltà di Perugia? All'appello di Dio: “Sii il mio soldato”, egli risponde comperando delle armi. Per fortuna di ammala! “Ripara la mia Chiesa!”: fa tutto a rovescio, ruba i tessuti del padre, vende il cavallo e offre i soldi che ha in borsa. Usa sempre il potere del denaro. Si è reso conto che il denaro può spezzare le grandi gerarchie tradizionali, che il denaro può diventare il mezzo di una generosa carità. Ma queste risposte non sono nella linea della radicalità evangelica della sua vocazione».[16]

Proprio in questi tre episodi – almeno nella loro rappresentazione  nel ciclo  pittorico assisano – ci sembra tracciata la dinamica della sua conversione che leggeremo attraverso una figura che in qualche modo li attraversa: il cavallo. 


Parte prima
Un cavallo da cui scendere


Come è già stato notato non c’è in questo, come anche in altri cicli pittorici della storia di san Francesco, l’incontro con il lebbroso di cui egli stesso parla nel Testamento e poi ripreso dagli antichi biografi.[17] Qui la sequenza segue la fonte di riferimento, la Leggenda maggiore, che dopo l’omaggio dell’uomo semplice scrive: «Ma Francesco non conosceva ancora i piani di Dio sopra di lui: impegnato, per volontà del padre, nelle attività esteriori e trascinato verso il basso dalla nostra natura corrotta fin dall'origine, non aveva ancora imparato a contemplare le realtà celesti, né aveva fatto l’abitudine a gustare le realtà divine. E siccome lo spavento fa comprendere la lezione, venne sopra di lui la mano del Signore e l’intervento della destra dell’Eccelso colpì il suo corpo con lunghe infermità, per rendere la sua anima disposta all'unzione dello Spirito Santo. Quand'ebbe riacquistato le forze fisiche, essendosi procurato, com'era sua abitudine, vestiti decorosi, incontrò una volta un cavaliere, nobile ma povero e mal vestito, e, commiserando con affettuosa pietà la sua miseria, subito si spogliò e gli fece indossare i suoi vestiti. Così, con un sol gesto, compì un duplice atto di pietà, poiché nascose la vergogna di un nobile cavaliere e alleviò la miseria di un uomo povero» (LegM I,2: FF 1030).

Forse per l’opportunità di presentare la vicenda di Francesco secondo il modello agiografico dell’epoca[18] – cosa che potrebbe aver influito anche nella scelta degli episodi da rappresentare negli affreschi[19] –, il Celano, nella Vita seconda, così commenta: «È stato, forse, da meno il suo gesto di quello del santissimo Martino? Eguali sono stati il fatto e la generosità, solo il modo è diverso: Francesco dona le vesti prima del resto, quello invece le dà alla fine, dopo aver rinunciato a tutto. Ambedue sono vissuti poveri ed umili in questo mondo e sono entrati ricchi in cielo. Quello, cavaliere ma povero, rivestì un povero con parte della sua veste, questi, non cavaliere ma ricco, rivestì un cavaliere povero con la sua veste intera. Ambedue, per aver adempiuto il comando di Cristo, hanno meritato di essere, in visione, visitati da Cristo, che lodò l’uno per la perfezione raggiunta e invitò l’altro, con grandissima bontà, a compiere in se stesso quanto ancora gli mancava» (5: FF 585).

Anche in questo affresco comunque – come già si notava in quello introduttivo – la scenografia si arricchisce di particolari che vanno oltre il testo di riferimento. Espliciti sono qui gli elementi presi dall'episodio taciuto, quello del lebbroso, così come narrato dalla Leggenda maggiore: «Un giorno, mentre andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell'incontro inaspettato lo riempì di orrore. Ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare soldato di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e questi, mentre stendeva a lui la mano come per ricevere l'elemosina, ne ebbe il denaro insieme con un bacio. Subito risalì a cavallo; ma, per quanto si volgesse a guardare da ogni parte e sebbene la campagna si stendesse libera tutt'intorno, non vide più in alcun modo quel lebbroso. Perciò, colmo di meraviglia e di gioia, incominciò a cantare devotamente le lodi del Signore, proponendosi, da allora in poi, di elevarsi a cose sempre maggiori» (I,5: FF 1034).

Da questo brano il nostro affresco trae evidentemente l’ispirazione per il paesaggio che fa da sfondo all'incontro: una città fortificata sul pendio di un monte e un monastero sul versante del monte opposto, così come si poteva immaginare di vedere dalla pianura che si stende ai piedi di Assisi la stessa città e l’abbazia benedettina del Subasio. Dalla stessa fonte viene presa anche la figura del cavallo: quel cavallo dal quale Francesco scese per correre ad abbracciare il lebbroso, quel cavallo su cui si affretterà subito dopo a risalire.

Una presenza, quella del cavallo, che comunque non è fuori luogo dove c’è un cavaliere, anzi, addirittura due: uno effettivo, nobile, ma che ormai, povero e malvestito, il cavallo non ce l’ha più; l’altro di desiderio, ricco, ma non nobile, che il cavallo ce l’ha, eccome!

Della vocazione cavalleresca di Francesco si fa cenno nelle fonti biografiche. Così la Leggenda dei tre Compagni, dopo aver detto del ritorno di Francesco dalla prigionia a Perugia, scrive: «Passati pochi anni, un nobile della città di Assisi, desideroso di acquistare soldi e gloria, fa i preparativi militari per andare in Puglia. Venuto a sapere la cosa, Francesco è preso dal desiderio di andare con lui. Così, per essere creato cavaliere da un certo conte Gentile, prepara delle vesti il più possibile preziose; poiché, se era meno ricco di quel concittadino, era però più largo di lui nello spendere» (5: FF 1399).

Non è scritto, ma è facile immaginare, che quello della cavalleria  fosse  un  sogno  accarezzato  fin da  bambino, magari nutrito dalle chanson de geste narrategli dalla madre, che una certa tradizione vuole di origine francese, o ascoltate da qualche cantastorie di passaggio in Assisi. Un sogno probabilmente assecondato dal padre, che avrebbe potuto beneficiare “economicamente” della fama del figlio, della possibilità concessa ai cavalieri di acquistare un titolo nobiliare e ascendere così nella scala sociale della città.

Ma, a differenza di san Martino – almeno da come è raffigurato nella cappella a lui dedicata della chiesa inferiore della stessa basilica – Francesco dal cavallo scende. Scende, o è tirato giù: scende perché in qualche modo “costretto”, ma non solo e non tanto dalla pietà verso un povero e malvestito, uno tra i tanti che popolavano la sua e le altre città, a cui il mantello avrebbe potuto anche “gettarlo” dall'alto del suo cavallo, senza entrare effettivamente e affettivamente in relazione con lui. A farlo scendere dalla sua condizione di presunta o pretesa superiorità, di distacco – o, più semplicemente, di paura –, non è semplicemente la vista di un povero, ma di un “cavaliere” povero, verosimilmente impoverito, fallito.

Non è difficile immaginare come si possa essere sentito Francesco in quel momento, quali emozioni lo abbiamo attraversato nel trovarsi di fronte a un modello sfigurato, quello del cavaliere, in cui si infrangeva quell'ideale tanto coltivato, drammaticamente risvegliato da una realtà che gli stava davanti e che non poteva più evitare: il fallimento appunto. Eppure qualcosa del genere doveva averlo già provato nella lunga malattia riferita sia dal Celano nella Vita prima (cf. 3: FF 323) che da san Bonaventura nella Leggenda maggiore (cf. I,2: FF 1030), come anche nella prigionia a Perugia di cui ci parla sia lo stesso Celano nella Vita seconda (cf. 4: FF 584) che la Leggenda dei tre Compagni (cf. 4: FF1398).

Francesco scende da cavallo come san Paolo cadde a terra sulla via di Damasco (cf. At 9,4; 22,7; 26,14), tirato giù dall'amor sui, come fu umiliata la fierezza di colui che prima era «un bestemmiatore, un persecutore, un violento» (1Tm 1,13).

Un cavallo dunque più simbolico che reale, “aggiunto” nell'iconografia di Francesco come in quella di Paolo[20] e – a leggere la sua Vita – pure in quella di Martino[21]. 


E un uomo fatto tutt'uno col proprio cavallo è il centauro raffigurato nella vela dell'obbedienza dipinta sul soffitto della crociera della chiesa inferiore, dove il testo che accompagna l’affresco  lo  indica come simbolo della presunzione. Creatura della mitologia greca, il centauro rimanda al cavallo e al mulo, privi d’intelligenza, la cui «foga si piega con morso e briglie se no, a te non si avvicinano» (Sal 31,9).[22]


Ma a differenza dell’Apostolo, dopo quell'incontro, dopo quella discesa, subito Francesco risalì sul cavallo. «Abbandonare le consuetudini – scrive il primo biografo – è infatti molto difficile: una volta impiantatesi nell'animo, non si lasciano sradicare facilmente; lo spirito, anche dopo lunga lontananza, ritorna ai primitivi atteggiamenti, e il vizio finisce per diventare una seconda natura. Pertanto Francesco cerca ancora di sottrarsi alla mano divina; quasi immemore della correzione paterna, arridendogli la fortuna, accarezza pensieri terreni: ignaro del volere di Dio, sogna ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo» (1Cel 4: FF 324). 


Parte seconda
Un cavallo da dirottare


E Francesco sogna. «La notte successiva, mentre dormiva, dalla clemenza di Dio gli fu mostrato un palazzo grande e bello, pieno di armi contrassegnate con la croce di Cristo, per anticipargli in forma visiva come la misericordia da lui usata verso il cavaliere povero, per amore del sommo Re, stava per essere ricambiata con una ricompensa impareggiabile. Infatti, siccome egli chiedeva a chi appartenessero quelle armi, gli fu risposto, con una dichiarazione dall'alto, che erano tutte sue e dei suoi cavalieri» (LegM I,3: FF 1031).

L’antichità e la scienza moderna attribuiscono grande importanza ai sogni: l’una e l’altra riconoscendovi uno spazio privilegiato di relazione e di comunicazione con sé e con l’altro. Ma, come sostiene qualcuno, nessun sognatore può interpretare i suoi sogni perché chi lo fa finisce per crearne uno nuovo.[23]

Ed è quello che accade a Francesco: «Quando al mattino si destò, credette di capire che quella insolita visione era per lui un presagio di gloria. Difatti egli non aveva ancora l’animo esercitato a scrutare i divini misteri e non sapeva ancora intuire la verità delle cose invisibili, attraverso le apparenze di quelle visibili. Perciò, ignorando ancora le disposizioni di Dio, decise di recarsi in Puglia al servizio di un nobile conte, con la speranza di acquistare in questo modo quel titolo di cavaliere che la visione gli aveva indicato. Di lì a poco si mise in viaggio; ma, appena giunto nella città più vicina, udì nella notte il Signore che in tono familiare gli diceva: “Francesco, chi ti può giovare di più: il signore o il servo, il ricco o il povero?”. “Il signore e il ricco”, rispose Francesco. E subito la voce incalzò: “E allora perché lasci il Signore per il servo; Dio, così ricco, per l’uomo, così  povero?”. Francesco,  allora: “Signore, che cosa vuoi che io faccia?”. “Ritorna nella tua terra – rispose il Signore – perché la visione che tu hai avuto prefigura una realtà spirituale, che si deve compiere in te, non per disposizione umana, ma per disposizione divina” […]» (LegM I,3.: FF 1031-1032).

Come per tutti i sogni, decisiva anche qui è la funzione dell’interprete, di un interlocutore, perché, come dice il Talmud, «i sogni vanno secondo la bocca»24, a cui fa eco il detto che «un sogno non interpretato è come una lettera non letta».[25]

La Leggenda dei tre Compagni ci permette di cogliere qualcosa di più di più di questo momento: «Destatosi, egli si mise a riflettere attentamente su questa rivelazione. E come la prima visione lo aveva proiettato quasi totalmente fuori di sé per la grande gioia nata dal desiderio di successi temporali, così questa nuova visione lo raccolse tutto dentro di sé. Ripensava con stupore e così intensamente alla scossa del messaggio ricevuto, che quella notte non riuscì più a chiudere occhio. Spuntato il mattino, in gran fretta fece ritorno verso Assisi, lieto e pieno di esultanza. Ed era in attesa che il Signore, il quale gli aveva inviato queste visioni, gli svelasse la sua volontà, indicandogli con il suo consiglio la via della salvezza. Mutato interiormente, non gli importava più di andare in Puglia e desiderava solo di conformarsi al volere divino» (6: FF 1401).

Curioso il fatto che nella prima edizione delle Fonti francescane, probabilmente per un eccesso interpretativo del traduttore, in questo stesso brano fa una breve comparsa il nostro co-protagonista e lo fa associato a un verbo a dir poco inusuale: «Spuntato il mattino, in gran fretta dirottò il cavallo verso Assisi, lieto ed esultante»[26].

Come nell'incontro col lebbroso Francesco dovette far violenza al proprio istinto per smontare da cavallo  a offrirgli un denaro, baciandogli la mano, così dovette qui dirottare il proprio cavallo, con morso e briglie, per convincerlo a rinunciare ai criteri mondani che lo guidavano. 


Parte terza
Un cavallo di cui liberarsi


La biografie pongono dopo il ritorno da Spoleto il più volte citato episodio dell’incontro con il lebbroso, un incontro inaspettato che lo riempì di orrore. «Ma, ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare soldato di Cristo doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e questi, mentre stendeva stendeva a lui la mano come per ricevere l’elemosina, ne ebbe il denaro con un bacio» (LegM I,5: FF 1034). «Da quel giorno cominciò progressivamente a non fare più alcun conto di se stesso, fino a giungere alla perfetta vittoria su di sé, con la grazia di Dio» (3Comp 11: FF 1407).

Ma vincere se stessi non è cosa semplice: «Cercava luoghi solitari, amici al pianto; là, abbandonandosi a lunghe e insistenti preghiere, fra gemiti inenarrabili, meritò di essere esaudito dal Signore. Mentre infatti un giorno, pregava, così isolato dal mondo, ed era tutto assorto in Dio, nell'eccesso del suo fervore, gli apparve Cristo Gesù, come uno confitto in croce. Al vederlo, si sentì sciogliere l’anima. Il ricordo della passione di Cristo si impresse così vivamente nelle più intime viscere del suo cuore che, da quel momento, quando gli veniva alla mente la crocifissione di Cristo, a stento poteva trattenersi, anche esteriormente, dalle lacrime e dai sospiri, come egli stesso riferì in confidenza più tardi, quando si stava avvicinando alla morte. L’uomo di Dio comprese che, per mezzo di questa visione, veniva detta per lui quella massima del Vangelo: Se vuoi venire dietro a me, rinnega te stesso, prendi la tua croce e seguimi» (LegM I,5: FF 1035). 

La Leggenda dei tre Compagni così racconta le emozioni e i sentimenti di quei momenti: «Il nemico del genere umano, che lo teneva d’occhio, si sforzava di ritrarlo dalla buona via, incutendogli paura e orrore. C’era infatti in Assisi una donna mostruosamente ingobbita e il demonio, apparendo all'uomo di Dio, gliela riportava alla memoria, minacciandolo che, se non si ritraeva dai suoi propositi, avrebbe inflitto a lui la deformità di quella donna. Ma il fortissimo cavaliere di Cristo, non curando le minacce del diavolo, pregava devotamente che Dio guidasse il suo cammino. Pativa nell'intimo sofferenza indicibile  e  angoscia, poiché  non  riusciva  a  trovare serenità fino a tanto che non avesse realizzato i propositi della sua mente. I pensieri più contrastanti si succedevano l’un l’altro e la loro importunità lo sconvolgeva duramente. Dentro però gli dava un fuoco divino, e non riusciva a celare esteriormente l’ardore divampato. Era affranto dal pentimento di aver così gravemente peccato, ma le colpe passate e le tentazioni presenti non lo allettavano più, sebbene non fosse ancora sicuro di potersene astenere in futuro» (12: FF 1409).

Non è difficile immaginare quale fosse in quel periodo lo stato d'animo di Francesco: un pezzo dopo l’altro i suoi sogni si andavano infrangendo, il suo castello, il bel palazzo pieno di armature e stendardi indicatogli nel sogno dallo stesso Cristo, si andava sgretolando... come la piccola chiesa di San Damiano, posta fuori dalle mura della città: «Egli era un giorno uscito nella campagna per meditare. Trovandosi a passare vicino alla chiesa di San Damiano, che per l’eccessiva vecchiezza minacciava rovina, spinto dall'impulso dello Spirito Santo, vi entrò per pregare. Mentre pregava inginocchiato davanti all'immagine del Crocifisso, si sentì invadere da una grande consolazione spirituale e, fissando gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore, udì con gli orecchi del corpo una voce scendere verso di lui dalla croce e dirgli per tre volte: “Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina!”. All'udire quella voce così meravigliosa, Francesco rimane stupito e tutto tremante, perché nella chiesa è solo, e, percependo nel cuore la forza del linguaggio divino, si sente rapito fuori dei sensi. Tornato finalmente in sé, si accinge ad obbedire, si concentra  tutto  nella missione di riparare la chiesa di mura, benché la parola divina si riferisse principalmente a quella Chiesa, che Cristo acquistò col suo sangue, come lo Spirito Santo gli avrebbe fatto capire e come egli stesso rivelò in seguito ai frati. Si alzò pertanto, munendosi del segno della croce e, prese con sé delle stoffe da vendere, si affrettò verso la città di Foligno. Qui vendette tutto quanto aveva portato; si liberò anche, mercante fortunato, del cavallo, col quale era venuto, incassandone il prezzo» (LegM II, 1: FF 1038-1039).

Se immediatamente Francesco interpretò le parole del Crocifisso come un invito a restaurare quella chiesa (e non solo quella, visto che poi mise mano anche a quella di San Pietro e quindi alla Porziuncola), sotto la sua guida – così scrive san Bonaventura – «si sarebbe rinnovata la Chiesa in tre modi – secondo la forma di vita, secondo la Regola e secondo la dottrina di Cristo da lui proposte» (LegM II,8: FF 1050). E ciò conformemente a un altro sogno, quello di Innocenzo III, a cui fu così rivelata la missione di Francesco, «che con la sua opera e dottrina sosterrà la chiesa di Cristo» (III,10: FF 1064).

Ma se il primo riparare figurava e anticipava il secondo, tra i due ce n’è sicuramente un altro a cui il Signore chiamava Francesco. In quel va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina, non  possiamo non leggere anche, e forse innanzitutto, l’invito a lui rivolto a mettere finalmente mano alla sua vita tutta in rovina, a riparare quella casa, quel “tempio”, non più però come cosa “sua”,  ma, dice il Crocifisso, “mia”. Dall'adorare sé stesso all'offrire sé stesso come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cf. Rm 12,1), un invito a quel decentramento di cui ci sembra trovare traccia nella Vita prima là dove il primo biografo scrive che «la prima  opera cui Francesco pose mano, appena libero dal giogo del padre terreno, fu di riedificare un tempio a Dio. Non pensava di costruirne uno nuovo, ma restaurò una chiesa antica e malridotta; non scalzò le fondamenta, ma edificò su di esse, lasciandone così, senza saperlo, il primato a Cristo. Nessuno infatti potrebbe creare un altro fondamento all'infuori di quello che già è stato posto: Gesù Cristo» (18: FF 350).

Ma, come dice la Leggenda dei tre Compagni, Francesco anche quella volta fraintese e, «uscito dalla chiesa, trovò il sacerdote seduto lì accanto e, mettendo mano alla borsa, gli offrì una certa somma di denaro, dicendo “Messere, ti prego di comprare l’olio per fare ardere una lampada dinanzi a quel Crocifisso. E quando a tale scopo questi denari saranno finiti, ti offrirò di nuovo quello di cui c’è bisogno» (13: FF 1411). E così poco dopo continua: «Gioioso per la visione e le parole del Crocifisso, Francesco si alzò, si fece il segno della croce e poi, salito a cavallo e portando con sé delle stoffe di diversi colori, andò alla città di Foligno, dove vendette il cavallo e tutta la merce che portava e tornò subito a San Damiano» (16: FF 1415).

“Mercante fortunato” vendette, anzi – per dirla con la stessa Leggenda maggiore – “si liberò” anche del cavallo (cf. II,1: FF 1039) e questa volta – non lo dicono i biografi ma possiamo ben immaginarlo – tornò a casa a piedi o, come popolarmente si sarebbe poi detto, “col cavallo di san Francesco”. Da allora a cavallo ci tornò raramente, giusto quando costretto dalla malattia (cf. 2Cel 77: FF 665; 96: FF 683) così come aveva voluto che si scrivesse nella Regola, dove dispone che i frati «non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità» (Rb III,12: FF 85; cf. Rnb XV,2: FF 41).

Fine del terzo atto

A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.


Indice
Atto terzo: cavallo e cavaliere
- parte prima: un cavallo da cui scendere
- parte seconda: un cavallo da dirottare
- parte terza: un cavallo di cui liberarsi
Epilogo: nella chiesa dietro a Cristo

Note

[16]  FABRICE HADJADJ, Francesco d’Assisi, il santo della crisi, in L’utopia di Francesco d’Assisi, a cura di Ugo Sartorio, Padova, Edizioni Messaggero Padova, 2013, pp 49-50.

[17] Cf. 1Cel 17: FF 348; 2Cel 9: FF 592; LegM 5: FF 1034; 3Comp 9: FF 592.

[18]  La Vita Martini scritta da Sulpicio Severo con ogni probabilità lo stesso anno della morte del maestro, il vescovo Martino di Tours (316ca-397), ebbe una grande diffusione tanto da diventare un modello delle successive vite dei santi. Martino fu tra i primi santi non martiri della chiesa e la sua Vita divenne un exemplum per la nuova condizione di vita del cristiano. A seguito dell’editto di Milano che nel 313 aveva concesso ai cittadini d’Oriente e Occidente la libertà  di onorare le proprie divinità era infatti necessario trovare un modello di santità “alternativo” a quello fino ad allora quasi esclusivo del martire.

[19] Si noti come la sequenza negli affreschi del dono del mantello e del sogno (in cui lo stesso mantello dato da Francesco al cavaliere povero ricopre poi lo stesso Francesco dormiente) ricalca quella del ciclo pittorico dedicato al santo vescovo nella omonima cappella della chiesa inferiore e ciò concordemente alla sua Vita, in cui la notte seguente all'incontro con il povero ignudo, «dopo essersi abbandonato al sonno, vide Cristo vestito dalla parte della sua clamide con cui aveva ricoperto il povero. Gli fu ordinato di fissare con la massima attenzione il Signore e di riconoscere la veste che aveva offerto. Quindi sentì Gesù dire a chiara voce alla moltitudine degli angeli che gli stavano intorno: “Martino, ancora catecumeno, mi ha ricoperto con questa veste”. Davvero memore delle proprie parole, il Signore, che un tempo aveva proclamato: “Ogni volta che avete fatto ciò per uno solo di questi più piccoli, l’avete fatto per me”, riconobbe apertamente d’essere stato rivestito lui nella persona del povero. E a conferma della testimonianza di una così buona opera, si degnò di mostrarsi in quello stesso abito che il povero aveva ricevuto» (SULPICIO SEVERO, Vita di Martino, Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Fabio Ruggiero, Bologna, EDB, 2003, 3,3-4, p. 85.

[20] Non c’è nessun cavallo nel triplice racconto di quell'esperienza fatto dallo stesso san Paolo contenuto negli Atti degli apostoli, eppure si è soliti immaginarsela più che come una semplice caduta a terra come un più drammatico disarcionamento da cavallo, in questo certamente condizionati dall'interpretazione artistica, debitrice in questo del modello medioevale che rappresentava il peccato della superbia appunto come un cavaliere disarcionato. Celebre in tal senso la Conversione di san Paolo del Caravaggio, dipinto del 1601 conservato nella Cappella Cerasi della basilica romana di Santa Maria del Popolo, ironicamente soprannominata la Conversione del cavallo per la sua rilevanza nella scena.

[21]  Così la Vita di Martino racconta l’episodio: «un giorno in cui non aveva con sé proprio niente all'infuori delle armi e dei soli indumenti della divisa militare, nel cuore dell’inverno che era più rigido del solito, al punto che il rigore del gelo spegneva le vite di molti, s’imbatté, alla porta di Amiens, in un povero ignudo. Poiché questi implorava la compassione dei passanti e tutti, evitando lo sventurato, proseguivano oltre, quell'uomo pieno di Dio comprese che il povero, cui gli altri non accordavano un gesto di misericordia, era a lui riservato. Che fare? Non aveva niente all'infuori della clamide che indossava, poiché il resto già l’aveva dato vi in un’analoga opera di carità. Così, afferrata prontamente la spada di cui era cinto, divise la clamide a metà: una parte la donò al povero e la rimanente se la rimise indosso […]» (SULPICIO SEVERO, cit., 3,1-2, pp. 83.85).

[22] Si pensi anche al cavallo e cavaliere gettati in mare in Es 15,1 e 21 o, nei salmi, espressioni come «un’illusione è il cavallo per la vittoria» (33,17), «non apprezza il vigore del cavallo, non gradisce la corsa dell’uomo» (147,10) o, in Sir, «un cavallo non domato diventa caparbio, un figlio lasciato a sé stesso diventa testardo» (30,8).

[23] TOBIE NATHAN, Una nuova interpretazione dei sogni, Milano, Raffaello Cortina, 2011, p. 15

[24] Talmud Babilonese. Trattato Berakhòt (Benedizioni), a cura di David Gianfranco Di Segni, tomo 2, Firenze, Giuntina, 2017, 55b/2, p. 247.

[25] Idem, 55a/3, p. 243.

[26] Assisi, Movimento Francescano, 1977. Il testo latino dice così: «Mane itaque facto, versus Assisium revertitur festinanter, laetus et gaudens quamplurimum, exspectansque voluntatem Domini qui sibi haec ostenderat et de salute sua ab ipso consilium sibi dare» (6,12: Fontes Franciscani, Santa Maria degli Angeli-Assisi, Edizioni Porziuncola, 1995, p. 1379).

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