Il 4 ottobre 1958, in occasione del pellegrinaggio delle Diocesi della Lombardia per l'offerta dell'olio per la lampada votiva dei Comuni d'Italia che dal 1939 arde presso la tomba di san Francesco, l'allora Arcivescovo Giovanni Battista Montini (il futuro Papa Paolo VI) pronunciava in Assisi il seguente discorso (in: "Rivista diocesana milanese", 1958, pp. 491-493; poi anche in: L'Italia pellegrina ad Assisi. 50 anni di incontri con san Francesco patrono d'Italia, 1939-1989, [a cura di Nicola Giandomenico e Mario Collarini], Perugia, Cassa di Risparmio di Perugia, 1990 pp. 99-102) che, nella memoria liturgica del beato Paolo VI, piace qui riproporre inaugurando una sorta di sezione di questo blog dedicata ad una "economia in chiave francescana".
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.
Magistrati e
cittadini, Sacerdoti e fedeli della terra di Lombardia,
venuti con
me pellegrini, in rappresentanza della nostra Regione e della intera Nazione, a
questo sacro luogo per rendere onore al Patrono d'Italia, san Francesco
d'Assisi, nel giorno sacro alla memoria del suo beato transito, offriamo al
Santo una preghiera, semplice e difficile insieme, naturale e strana ad un
tempo.
Maestro di San Francesco, Storie di san Francesco. La rinuncia ai beni (1260 ca) Assisi, Basilica di S. Francesco, chiesa inferiore |
Una
preghiera dobbiamo pur esprimerla; non sarebbe religioso il nostro atto, se al
tributo del nostro omaggio non si unisse quello della nostra invocazione, della
nostra fiducia. E la preghiera che dobbiamo fare deve tenere conto di ciò che
noi siamo, e di ciò che Lui è; non sarebbe altrimenti, da parte nostra,
sincera; non sarebbe altrimenti verso di Lui riverente e a Lui gradita. Ora noi
siamo provenienti da una Regione che si caratterizza oggi — e forse domani, col
Mercato Comune, ancor più — per il suo sviluppo economico e per l'impegno con
cui a tale sviluppo essa lega i suoi pensieri, i suoi interessi, i suoi
affanni, le sue speranze, la sua vita. Siamo figli dell'«Homo oeconomicus»;
siamo esponenti di una concezione della vita che gravita intorno alla ricchezza.
Domenico Veneziano, Matrimonio mistico di san Francesco con Madonna povertà, 1440-60 Monaco di Baviera Alte Pinakothek, Bayerische Staatsgemäldesammlungen |
Anche se non
la possediamo, la ricchezza è il cardine della nostra vita moderna; ad essa
tende il nostro lavoro, tanto progredito, organizzato, meccanizzato, teso e
febbrile, intorno ad essa si dibatte, non conclusa, non sopita, la questione
delle classi sociali; di essa parla la nostra cultura superiore e la nostra
conversazione familiare, di essa gode e soffre la nostra gente. Questa osservazione
non è un vanto, è il riconoscimento d'una realtà, che qui viene in evidenza, e
quasi ci mette a disagio. E quasi una confessione: noi siamo uomini abituati a
porre nella ricchezza la nostra stima, la nostra speranza. Quale preghiera possiamo
noi rivolgere a san Francesco d'Assisi?
Il disagio
cresce, dobbiamo rivolgerci al Santo della Povertà che non solo soffrì, ma
volle la Povertà, così da farla simbolicamente sua sposa, da professarla come
sua scelta sociale, da immedesimarsi, sempre più in essa, come fonte della sua
spiritualità: «Poscia di dì in dì l'amo più forte» (Par. XI 63).
Se non
sapessimo quale «ignota ricchezza», quale «ben verace» (ib 82) di umanità, di poesia di grandezza morale, di sapienza, di civiltà,
di santità si nascondono sotto la misera veste del Poverello d'Assisi, saremmo
subito tentati di uscire di qui, come avessimo sbagliato la méta, o di starcene
un istante come turisti, che si contentano di osservare la singolarità di un
ambiente artistico, suggestivo e misterioso, ma totalmente estraneo al loro
spirito.
Preghiera
umile e audace
Giotto et alii, Storie di san Francesco La rinuncia dei beni (post 1296?) Assisi, Basilica di S. Francesco, chiesa superiore |
Come
arrischiare un colloquio decente fra noi e Francesco? Come presentarci, senza
sentirci da lui respinti, o a lui offensivi? E come chiedergli qualche cosa che
non sia in nostro danno, o a lui disdicevole?
Ecco perché
la conversazione con lui quasi ci sembra insostenibile, e l'essere qui un
errore, e proferire una preghiera impossibile.
Eppure
dobbiamo trarre dal nostro spirito una preghiera, vi dicevo, umile e audace.
Una preghiera che ci faccia buoni — e diciamo pure, Poveri — nella nostra
ricchezza, e che renda la sua Povertà, in qualche modo, una dovizia, una salvezza
per noi.
La preghiera è questa: Francesco, aiutaci a purificare
i beni economici dal loro triste potere di perdere Dio, di perdere le nostre
anime, di perdere la carità dei nostri concittadini. Vedi, Francesco, noi non
possiamo straniarci dalla vita economica, è la fonte del nostro pane e di
quello altrui; è la vocazione del nostro popolo, che sale alla conquista dei
beni della terra, che sono opere di Dio; è la legge fatale del nostro mondo e
della nostra storia. È possibile, Francesco, maneggiare i beni di questo mondo,
senza restarne prigionieri e vittime? È possibile conciliare la nostra ansia di
vita economica, senza perdere la vita dello spirito e l'amore? È possibile una
qualche amicizia con Madonna Economia e Madonna Povertà? O siamo inesorabilmente
condannati, in forza della terribile parola di Cristo: «È più facile che un
cammello passi per la cruna d'un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli»?
(Mt. 19, 24). Anche il nostro sant’Ambrogio ci aveva detto quelle parole
tremende: «O ricco, tu non sai quanto sei povero!» (De Nabuth, 2, 4), ma non le ricordiamo più: e non le abbiamo mai
bene comprese. E anche Tu, Francesco, non hai insegnato ai tuoi figli a
lavorare, a mendicare e a beneficiare, cioè a cercare ed a trattare quei beni
economici, di cui la vita umana non può essere priva?
Ma qui davanti
a Te, Francesco, noi vogliamo avere un dono di luce, anche un lampo solo sulla
ricchezza di cui siamo tanto appassionati, e vogliamo vedere, sì, senza fatica
i due grandi pericoli che essa introduce nella nostra vita, e li vogliamo qui a
noi stessi ricordare e denunciare.
Dono di luce
sulla ricchezza
Cristoforo Prestinari (statue) San Francesco rinuncia ai beni terreni nella mani del vescovo (sec. XVII) Orta San Giulio, Sacro Monte di Orta, cappella III |
Ecco,
meditiamo un istante. La ricchezza, facilmente troppo facilmente, fortemente,
troppo fortemente s'impadronisce dei nostri pensieri e diventa fonte dei nostri
desideri, s'impadronisce delle nostre anime, e le assorbe nei suoi calcoli e
nelle sue vicende, li appesantisce di valori temporali, le incatena alla terra.
La ricchezza toglie la libertà interiore; ci dà il gusto dei beni materiali e
dei piaceri che da essi, sperati o goduti, possono derivare; ci attenua prima,
ci toglie poi il senso dei beni spirituali, come fossero lontani, difficili,
inadeguati alle ispirazioni umane. Ci fa amare le cose esteriori, e meno quelle
interiori; ci fa cercare le cose temporali e dimenticare le eterne. Ci illude
che il nostro destino finale sia qui, e ci preclude una diritta ricerca del
nostro vero scopo vitale, ché sopra l'esperienza presente ed oltre il tempo
presente. Ci cambia la direzione della vita, altera la bussola del nostro
cammino. Ci offre beni fugaci e fallaci, e ci fa perdere il Bene unico e sommo,
il Dio vivente ed infinito.
Ecco perché
Cristo, il Maestro, ebbe a porre come primo articolo del suo messaggio: «Beati
i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt. 5).
Questo
infatti è il primo pericolo della ricchezza economica, di farci inabili alla
ricerca di Dio, ed immeritevoli di raggiungerlo.
Poi un
secondo pericolo parimenti derivato dalla vita economica, rende in questo
momento trepidanti i nostri spiriti; e sempre li dovrebbe rendere vigilanti: è
quello di diventare egoisti. Chi possiede teme. Chi possiede si isola. Chi
possiede si difende. Chi possiede si pone facilmente in posizione ostile verso
i propri simili. Quel prossimo che dovremmo amare — amare come noi stessi,
proprio perché è prossimo — ci riempie di diffidenza, d'invidia, di
concorrenza, di inimicizia. Il mio e il tuo segnano confini non solo nell'ordine
economico e giuridico, ma anche in quello morale e spirituale. La ricchezza
crea la grande tentazione di fare dei nostri simili i nostri servi ed i nostri
strumenti.
Essa diventa
uno dei fattori principali della formazione chiusa dei raggruppamenti sociali,
e la posta di quel terribile gioco che è la lotta di classe. Ciò che doveva
servire alla felicità umana si trasforma spesso nella sorgente degli odi
sociali e della infelicità dei popoli: le guerre hanno sovente la loro infausta
radice nel miraggio di conquiste economiche, nell'auri sacra fames. L'avarizia e la cupidigia soverchiano la
valutazione e il rispetto della vita umana.
Benozzo Gozzoli Storie di S. Francesco. La rinuncia ai beni (1450-52) Montefalco, Chiesa di S. Francesco |
Sappiamo
queste cose. Ma notiamo subito un fatto singolare: qui, nella penombra di
questa Basilica, queste verità di comune esperienza acquistano una chiarezza
penetrante e svelano i loro duri contorni impressi nella vicenda della storia
nostra, quella di ieri e quella di oggi; e, superato il primo momento di
interiore disagio, qui, la considerazione di questo quadro, in cui la conquista
economica della civiltà assume aspetti paurosi, non ci disturba più. Anzi — che
è? — subentra in noi quasi un senso di fiducia e di pace. È vero: la ricchezza
può farci perdere la conquista di Dio, il Bene Sommo, e ci può guastare la
convivenza amichevole con i nostri simili, ci può impedire la carità: la carità
verso Dio e la carità verso il prossimo. È tremendo. Ma appunto perché è tremendo
questo problema della ricchezza nella casa della Povertà, ci facciamo animo a
studiare una sua soluzione: generica, iniziale fino a che si vuole, ma tale
almeno da ridarci bontà nel cuore e fiducia, che ritornando domani al nostro
lavoro, non faremo opera contro noi stessi.
Perché al
nostro lavoro bisogna pur ritornare. Sarebbe mai possibile che in questo
momento di mistico fervore, rinnegarlo? No, certo. E dobbiamo forse spogliarci,
come questa «gente poverella» seguace del Santo d'Assisi, dei beni economici se
Dio non ci fa dono di eguale vocazione? E se a quei beni è legato il benessere,
la prosperità e la pace del nostro popolo?
Lezione
Francescana: «Svelenire i
beni economici»
Maestro di Castelsardo La rinuncia ai beni terreni (sec. XIV fine) Sassari, Pinacoteca Mus'a al Canopoleno (per approfondire clicca qui) |
Qui è la
nostra preghiera a S. Francesco, che ci faccia grazia a svelenire i beni
economici, come dicevamo, d'ogni loro funesto potere contro la carità di Dio e
la carità del prossimo.
Proviamo a
dire: è cattiva la ricerca dei beni economici quando essi servono all'uomo? Al
pane, all'elevazione della vita, alla cultura, alla pace, allo sviluppo delle
facoltà umane e dell'organizzazione civile del mondo? No. Questa ricerca si
chiama lavoro; ed il lavoro è nell'intenzione creatrice di Dio, è nel suo piano
penitenziale di redenzione, è nell'esempio, tanto più umile quanto più
eloquente, di Cristo, è nel precetto apostolico ai primi cristiani, è nella
stessa disciplina francescana tutta umiltà e fatica.
Questa ricerca
si chiama produzione. Produrre i beni utili alla vita è, per sé, cosa buona,
necessaria e grande. Se mai, chiederemo a S. Francesco che ci faccia ben
comprendere come non si vive di solo pane; come la vita economica non possa
essere l'unico fattore, determinante e finale, della nostra giornata terrena,
come la vita economica debba perciò essere subordinata alla legge morale. Non
si vive per l'economia, anche se si deve vivere di economia. Al di sopra del
processo economico deve essere instaurato l'ordine umano.
Lo sviluppo
produttivo non deve prescindere dall'esigenza d'un crescente rispetto al lavoro
dell'uomo; ed il lavoro dell'uomo deve a lui aprire la vita ad un adeguato
godimento dei beni a cui la produzione è rivolta, in modo che il lavoratore non
si senta più estraneo nell'azienda, ma sia favorito a collaborarvi non per solo
interesse precariamente equilibrato, ma per convinzione altresì di essere
partecipe d'un comune interesse e di trovarvi riconoscimento e tutela della sua
umana dignità.
Giovan Battista Nodari San Francesco si spoglia delle vesti (1902) Bergamo, Accademia Carrara-Museo |
Così diremo
d'un’altra fase del processo economico: la distribuzione della ricchezza, cioè
il riconoscimento che i beni economici appartengono a determinate persone e ne
costituiscono la proprietà. Anche questa è legge di natura, cioè voluta da Dio
e risponde alla promozione dell'uomo a fini superiori. San Francesco, che si
priva per sé d'ogni personale proprietà, non la condanna in altri, ma cerca di
equilibrare con l'esempio e la pratica d'un eroico disinteresse l'eccessiva avidità
con cui tanti uomini, anche cristiani, sono attaccati alle loro proprietà. E
libero ormai d'ogni aderenza ai beni economici, avverte, con la sua mano tesa a
mendicare, come questi siano troppo disugualmente distribuiti, e come la carità
debba dare l'avvio a quella volontaria migliore distribuzione che si chiama
l'elemosina, la beneficenza, e come questa debba porre alla coscienza dei
giusti il problema di una più equa distribuzione dei beni economici,
esattamente come ebbe più volte a proclamare il Sommo Pontefice, affermando che
«Essa è e rimane un punto programmatico della Dottrina sociale cattolica» (Disc. IX, 216).
San Francesco si spoglia e rinuncia ai suoi beni (XVI fine-XVII inizio) Roma, Chiesa del Gesù, cappella del Sacro Cuore (già di S. Francesco d'Assisi) |
La lezione
francescana si fa grave; ma ancora più salutare e moderna. E prosegue con note
anche più severe e più chiare a ricordarci che il terzo momento del ciclo
economico, quello del godimento della ricchezza, se da un lato è il più ovvio
ed il più legittimo, perché finalmente a ciò tende l'economia, dall'altro è il
più pericoloso, perché nel godimento della ricchezza più facilmente l'uomo si
arresta, si compiace, e si corrompe idealmente, moralmente e socialmente. È
perciò a questo punto che la lezione francescana incalza con maggiore voce, e
ci ricorda come la felicità non consiste nella soddisfazione di molti e sempre
nuovi bisogni, come sia invece saggezza, per ogni verso encomiabile, contenere
nell'ambito delle necessità, della semplicità e della funzionalità i bisogni a
cui Dio, e alla natura dell'umano consorzio che la ricchezza può dare
soddisfazioni; come si debba allargare a godimento comune, a funzione sociale,
il frutto della povertà, anche se esclusiva questa, quello deve essere più accessibile
dal comune bisogno; come perciò la proprietà, di fronte al sovrano diritto di
fratelli ci vuole, sia da considerarsi non dispotica e chiusa ma piuttosto una
funzione pubblica, un'amministrazione sociale, da cui non si può escludere il
bene comune dalla società; e come finalmente l'edonismo, il lusso, lo sfarzo,
l'avarizia, l'orgoglio che la ricchezza genera nei suoi seguaci, siano
perversione dannosa e deprecabile, sia per lo spirito umano, che per l'umana
convivenza.
Vangelo per
il nostro tempo
Bottega di Giotto, Allegoria della Povertà, particolare (1315 ca) Assisi, Basilica di San Francesco, chiesa inferiore |
Non sono
cose nuove, Francesco, quelle che ora ci predica, ma diventano Vangelo, per il
nostro tempo. Non nuove per sé, ché derivano dalla dottrina di Cristo
perennemente viva; ma, purtroppo, sempre nuove per noi che le sappiamo così male
ricordare, e così male applicare. Non nuove, ma sempre sagge specialmente per
noi, quando diventiamo amministratori del pubblico bene, che tante ricchezze
richiede, tante maneggia, tante traffica e spende; e vuole le nostre mani monde
e povere come le tue. Non nuove ma sempre difficili, e perciò bisognose di un
esempio radicale e sublime come il Tuo, affinché noi riusciamo a meglio
comprenderle ed a meglio seguirle, ed a ravvisarvi il principio di quella
giustizia sociale, che forma l'aspirazione più nobile e più dinamica del nostro
tempo.
Ecco,
allora, Francesco, che la Tua Povertà ci diventa amica e maestra. Ecco che
ammonisce coloro che mettono nei beni economici le loro somme speranze a mirare
più in alto, a svincolare il cuore dall'amore delle cose terrene, e a saperle
considerare come buone solo quando ci sono scala per salire le vie dello
spirito e ci sono specchio per riflettere la bellezza, la bontà, la provvidenza
di Dio; come Tu, povero, le hai viste, alla fine, cantandole, come libero
poeta, nel Tuo cantico delle creature.
Così
insegnaci, così aiutaci, Francesco, ad essere poveri, cioè liberi, staccati e
signori, nella ricerca e nell'uso di queste cose terrene, pesanti e fugaci,
perché restiamo uomini, restiamo fratelli, restiamo cristiani, noi Lombardi,
noi Italiani.
Assisi, 4 ottobre 1958
Giovanni Battista Montini
Arcivescovo di Milano
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